È questo, molto probabilmente, lo scopo dell’esistenza umana
Vladimir Vernadsky, visionario geochimico russo, oltre a suggerire l’esistenza di una biosfera pose le basi per lo sviluppo del concetto di Antropocene al quale dette il nome di Noosfera. L’eclettico scienziato sovietico sosteneva che il pensiero scientifico potesse essere considerato una forza geologica. Sebbene l’ecologo Eugene F. Stoermer avesse utilizzato la parola “antropocene” già negli anni ’80, il termine fu ampiamente divulgato solo nel 2000 dal chimico dell’atmosfera Paul J. Crutzen. Il premio Nobel olandese propose con questa definizione che la recente influenza delle attività umane sulla Terra, e in particolare sulla sua atmosfera, è così significativa da poter essere considerata l’inizio di una nuova epoca geologica. Questo periodo non ha una data d’inizio conclamata perché alcuni scienziati ritengono che i cambiamenti atmosferici siano iniziati con la rivoluzione industriale alla fine del XVII secolo e altri sostengono che lo sviluppo dell’agricoltura e la rivoluzione neolitica (circa 12 mila anni fa) ne abbiano, invece, dato l’avvio. In ogni caso, l’evidenza degli impatti umani sulla Terra, come il cambiamento di uso del suolo e del clima, il degrado degli ecosistemi, il declino della biodiversità e l’estinzione di specie è innegabile e notevole.
Nel frattempo, nel suo libro intitolato “Sulle origini delle cellule mitotiche”, Lynn (Sagan) Margulis sosteneva che gli organelli nelle cellule eucariotiche fossero il risultato di un’antica simbiosi tra procarioti. Alcuni anni dopo, la stessa microbiologa americana contribuì allo sviluppo di una teoria endosimbiotica su vasta scala, anticipata dall’idea di Biosfera di Vernadsky, che supportava l’idea che il pianeta Terra fosse un grande sistema simbiotico e autoregolato sostenuto da una complessa retroazione tra componenti biotiche e abiotiche. Questa idea fu riassunta nell’Ipotesi di Gaia dal geniale scienziato britannico James Lovelock nel 1972. L’ipotesi di Lovelock e Margulis era molto vicina al concetto di Antropocene sviluppato da Vernadsky e Crutzen. Sia l’idea di “Gaia” sia quella di “Antropocene” propongono processi di co-evoluzione che coinvolgono sistemi ecologici e sociali su scala globale.

Tuttavia, l’infondata convinzione che, con questa idea, James Lovelock avesse suggerito l’esistenza di una sorta di “finalità planetaria” ha provocato feroci critiche da parte di molti biologi, tra cui il noto evoluzionista Richard Dawkins. La maggior parte delle opposizioni alla teoria di Gaia si sono focalizzate sulla necessità di meccanismi evolutivi in grado di generare e mantenere l’equilibrio regolativo del pianeta vivente. Una delle critiche più frequenti, per quanto inconsistente, era appunto che l’ipotesi di Gaia implicasse la teleologia, una sorta di lungimiranza cosciente o di pianificazione da parte della vita stessa. Le altre accuse si fondavano principalmente sull’assenza di selezione naturale operata su pianeti a scala universale: la Terra non è un’unità di selezione, quindi Gaia non può adattarsi seguendo l’evoluzione darwiniana per mezzo di “selezione naturale planetaria”. Un’ultima critica, strettamente correlata alle precedenti, fu che ogni unità di selezione deve necessariamente riprodursi e se non può farlo, nessuna evoluzione può essere invocata. Persino lo stesso James Lovelock nel 1991, in una tavola del suo libro “Gaia: scienza pratica di medicina planetaria”, specificò che, al di là di molti analoghi processi di vita, l’unica differenza tra un batterio, un mammifero, un albero e Gaia è l’assenza di riproduzione in quest’ultima.
Per dimostrare che qualcosa è vivo, in un contesto ecologico ed evolutivo, è necessario dunque dimostrare come può riprodursi, anche se potenzialmente potrebbe non farlo mai. Non esistono specie sulla Terra che non si riproducono mai, sebbene per alcune possa accadere raramente o fortuitamente. Alcuni individui possono adattarsi a lungo prima di morire (come nel caso degli organismi modulari, ad esempio i sifonofori, i funghi coloniali, i coralli, ecc.), ma le specie a cui appartengono (almeno una percentuale dei suoi individui) si riproducono sempre. Potenzialmente e teoricamente (nei modelli matematici) potrebbe esistere un’evoluzione senza riproduzione, ma in Natura, dal momento che nessun individuo o specie unica e/o isolata può sopravvivere (non troviamo alcun esempio di ecosistemi monospecifici sul nostro pianeta, ad eccezione di quelli temporaneamente mantenuti da esseri umani), l’evoluzione implica sempre la speciazione, quindi la riproduzione. Ciò potrebbe significare che, per considerare Gaia viva, la condizione che esista nell’universo “un solo pianeta con la vita” potrebbe risultare del tutto infondata.

Lynn Margulis, nel suo libro intitolato “Pianeta simbiotico” (un titolo che ricordava l’osservazione di un suo studente che “Gaia non è altro che una simbiosi vista dallo spazio”) scriveva: “siamo simbionti su un pianeta simbiotico e, se siamo disposti a osservare, possiamo trovare le simbiosi ovunque”.
Attualmente, l’idea che il biota (ovvero l’insieme degli esseri viventi) sulla Terra possa mantenere condizioni favorevoli per la vita stessa in modi diversi e talvolta poco chiari alla scienza (cosa che in effetti ha fatto sin dalla comparsa delle prime forme di vita circa 4,1 miliardi di anni fa) è ampiamente accettata. Tuttavia, la forma più radicale della teoria di Gaia sostiene che gli esseri viventi agiscano efficacemente come se fossero un sistema unico e auto-organizzativo per mantenere la Terra in una sorta di equilibrio che è vantaggioso per la vita stessa. Questa versione controversa non è stata accettata come valida da molti scienziati sino a poco tempo fa. Recentemente, infatti, in un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Futures (Cazzolla Gatti, R. 2018. Is Gaia alive? The future of a symbiotic planet. Futures, 104, 91-99) ho suggerito il perché e il come Gaia dovrebbe essere considerata viva in qualsiasi senso evolutivo. Con il termine “Gaia” ho inteso il sistema composto da elementi simbiotici (la biosfera) e abiotici (l’atmosfera e la geosfera) che interagiscono e coevolvono.
In questo articolo ho cercato di mantenere la porta aperta al dibattito fondamentale su come il nostro pianeta funziona e mantiene la sua stabilità. Ho proposto, con un ragionamento logico-induttivo e argomentazioni analogiche che, senza invocare la teleologia, quindi senza alcuna previsione o pianificazione, un pianeta gaiano possa essere considerato come un sistema simbiotico coevolutivo, analogo a un corpo pluricellulare. Le cellule coevolvono insieme a un corpo come gli individui o le specie coevolvono con Gaia. In questo modo, ho avanzato l’idea che Gaia possa essere selezionata naturalmente e affrontare stati di coesistenza-esclusione-competizione, a seconda dell’adattabilità del suo biota, rispetto a quelli delle altre biosfere riproduttive (ovvero degli altri pianeti viventi nell’Universo). Questa capacità riproduttiva, insieme alla definizione del suo ambiente esterno e dello scambio energetico a cui partecipa, può conferire definitivamente a Gaia lo status di sistema vivente.

Alcune implicazioni derivano da questa evidenza. Prima di tutto, sembra ovvio che solo se un sistema gaiano è sano, differenziato e omeoretico, è in grado di evolvere fino alla sua fase riproduttiva. Se la biodiversità e gli ecosistemi non venissero preservati durante l’Antropocene, fino alla riproduzione del nostro un sistema gaiano, la propagazione del genoma planetario non potrebbe procedere.
La maggior parte degli scienziati concorda sul fatto che le attività umane durante l’Antropocene abbiano accelerato il tasso di estinzione delle specie, che sta causando la sesta estinzione di massa sul nostro pianeta. L’Homo sapiens sapiens (la nostra specie) è, quindi, una specie davvero importante, capace persino di influenzare un’epoca geologica, ma non la più importante per Gaia. Gli esseri umani potrebbero agire come cellule germinali che trasportano uno specifico genoma planetario, ma è improbabile che possano riprodursi (o sopravvivere disconnessi da Gaia) su un altro sistema gaiano, come alcuni film fantascientifici fanno credere. Piuttosto, come uno spermatozoo che perde il suo flagello e l’acrosoma mentre entra nell’ovulo di un altro corpo, cambiando quindi la sua identità, un essere umano può essere considerato solo come portatore dell’informazione genetica del corpo di cui è parte (ovvero, di Gaia) e non di se stesso: un mezzo più che un obiettivo. Molte altre specie si sarebbero potute evolvere e agire come unità germinali di propagazione, ciò può essere accaduto su altri pianeti gaiani presenti nell’Universo.
Quindi, la nostra specie potrebbe agire sia come cellula germinale, trasferendo il genoma di Gaia su altri pianeti, permettendo, quindi, la sua riproduzione oppure, se continuerà a crescere e distruggere incondizionatamente la Terra e a consumare risorse fondamentali per la sopravvivenza degli altri componenti della biosfera, come una cellula cancerogena, danneggiando Gaia con una malattia delle sue cellule somatiche (le altre specie) e dei suoi organi (gli ecosistemi) che, successivamente, interesserà le sue stesse cellule germinali (gli esseri umani), impedendole ogni possibilità di riproduzione (se si esclude la diffusione accidentale della vita su altri pianeti come risultato dell’impatto di asteroidi).
Lo scopo della vita, che è quello dei biota e delle biosfere e, quindi, è quello di un sistema gaiano, non è previsto o pianificato, ma non è altro che la pura propagazione di se stessa. Questo obiettivo potrebbe essere raggiunto solo se il significato essenziale della vita fosse quello di consentire la sua continuazione attraverso la diversità.

La nostra specie, come risultato di miliardi di anni di evoluzione e differenziazione simbiotica (o meglio, dal punto di vista di una cellula, di “sviluppo”) fino all’Antropocene ha la possibilità e il privilegio di consentire la continuazione e l’evoluzione di Gaia. Supponendo di avere questa possibilità e questo onore/onere, sorgerebbe nella nostra specie l’obbligo morale di permettere la riproduzione di Gaia, che richiederebbe due condizioni: primo, è necessario che manteniamo viva e sana la biodiversità e gli ecosistemi all’interno di Gaia e continuiamo a studiarli e proteggerli, perché sono le componenti essenziali di supporto del suo corpo; secondo, dovremmo dedicare le nostre energie alla ricerca di altri pianeti gaiani presenti nell’Universo e, cosa più importante, ai progressi tecnologici per trasferire il genoma di Gaia su altri siti riproduttivi potenzialmente idonei (pianeti disabitati e/o abitati).
Per raggiungere la prima condizione è fondamentale arrestare la perdita di specie, che è aumentata drammaticamente negli ultimi secoli dell’Antropocene, e l’impoverimento e la distruzione insostenibili degli ecosistemi. Allo stesso tempo, è essenziale mitigare e consentire l’adattamento della nostra e di altre specie (ovvero, della biosfera) ai cambiamenti globali attuali e futuri iniziati nell’Antropocene, come è sempre avvenuto nelle ere geologiche passate.
Poiché il nostro pianeta è a tre-quarti della sua vita (1,75-3,25 miliardi di anni restano prima che il sole si riscaldi tanto da impedire la sopravvivenza di qualunque specie sulla Terra) e non siamo ancora in grado di trasferire l’informazione genetica di Gaia su altri potenziali pianeti, sussiste un’altra ragione per cui dobbiamo permettere a Gaia di vivere il più a lungo possibile: avere abbastanza tempo per sviluppare i mezzi tecnologici utili a questo scopo. Per raggiungere un tale obiettivo, l’evoluzione di una civiltà ad alta tecnologia potrebbe essere d’aiuto.
Ho proposto nel mio studio scientifico pubblicato su Futures, che per favorire la riproduzione di Gaia, sia necessario avviare un programma di ricerca specifico per trovare il mix più adatto, diversificato e geneticamente rappresentativo di microrganismi gaiani che possano sopravvivere, evolversi e riprodursi su altri pianeti (metanogeni, estremofili, batteri fototrofici e chemiotrofici, ecc.) e che possano essere trasferiti su altri sistemi gainai in ciò che ho chiamato “biofore” (dal greco: βίος, “vita”, e φορά, “trasportare”, cioè capsule trasportatrici di vita). Appare fondamentale, inoltre, investire nello sviluppo di tecnologie in grado di trasferire le “biofore” su lunghe distanze in maniera diretta (se gli esseri umani saranno in grado di trasportarle direttamente su altri pianeti) o indiretta (se la diffusione avverrà tramite dispositivi tecnologici, in una sorta di estensione artificiale degli esseri umani, come cellule germinali di Gaia) e passiva (se la dispersione non sarà effettuata verso pianeti bersagli specifici, come semi di piante dispersi dal vento) o attiva (se le biofore verranno consegnate su pianeti idonei rilevati in precedenza).
Secondo alcuni scienziati ci sono almeno mezzo milione di pianeti gaiani nella Via Lattea. Ciò significa che ci sono molti potenziali compagni per Gaia, sparsi ovunque. Inoltre, milioni di pianeti non abitati potrebbero essere adatti alla sua riproduzione. Ad esempio, recentemente e per la prima volta, alcuni ricercatori della NASA hanno scoperto tre mondi simili alla Terra in orbita attorno a una stella nana ultra-fredda, a una distanza di 40 anni luce, in un altro sistema solare.
La mia teoria mostra che la specie umana ha la straordinaria possibilità di mutare la sua fama di distruttrice della Terra in un ruolo protettivo e riproduttivo per Gaia.
Il nostro pianeta simbiotico, trasferendo il suo genoma planetario per mezzo di biofore attraverso le sue cellule germinali umane, potrebbe iniziare la riproduzione delle “infinite forme bellissime” con le quali condividiamo la nostra vita in altri angoli dell’Universo.
Quindi, alla fine, la nostra specie potrà finalmente trovare un significato e un ruolo nell’universo evolutivo se saremo in grado di proteggere la vita dentro Gaia e permetterle di riprodursi fuori dal suo corpo.
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.
Biologo ambientale ed evolutivo
Professore associato, Università di Bologna
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