Abbiamo dimenticato la grammatica della natura

Un’ape ritorna al suo alveare e traccia col corpo un movimento sinuoso. Il senso, l’orientamento e la frequenza di questo ondeggiare comunicano alle compagne operaie dove si trova il più vicino, o interessante, o abbondante, campo pieno di fiori, ricchi del prezioso nettare di cui si nutrono.

Un’arvicola corre all’impazzata verso la buca d’emergenza scavata per la sua tana. Una scia ultravioletta la segue. Solo un occhio con bastoncelli fotosensibili a tali lunghezze d’onda può cogliere quel segnale involontario. Un rapace, dall’occhio di falco, appunto, osserva quella linea blu al suolo pronto a lanciarsi in picchiata sulla sua preda.

Un cane della prateria sbuca dalla vetta della collina di sabbia gialla per monitorare l’orizzonte. La sua famiglia è nei paraggi in cerca di acqua e cibo. D’improvviso uno squittio. Un lampo e tutti all’unisono scompaiono nel sottosuolo.

Un’ofride dei fuchi emerge dal terreno. Le sue foglie hanno colto attraverso il fotosistema sensibile al rosso vicino ed al fitocromo, il cambiamento di stagione. Emerge dal bulbo uno stelo e poi un magnifico fiore. Da questo, un richiamo affabulatore per l’imenottero in volo. Dal bulbo, invece, una piccola sostanza attraente per un fungo nascosto nel suolo. Uno scambio di filamenti ed il connubio vitale è pronto.

 

Linguaggio e matematica

 

Sono questi solo alcuni dei sofisticati ed affascinanti meccanismi messi in atto dalla Natura per inviare quei messaggi fondamentali alla vita di ogni essere. Spesso erroneamente definiamo il linguaggio una proprietà appartenente esclusivamente all’essere umano, confondendo il significato più profondo del termine con quello di «scambio di messaggi orali». Un simile atteggiamento deriva non solo dal dilagante antropocentrismo di cui è, palesemente, permeata la nostra cultura, ma anche dal retaggio derivante da un approccio meccanicistico e quindi, riduzionistico, delle scienze biologiche e sociali. Questo approccio derivante dalla meccanica newtoniana e dalla filosofia di Descartes, sebbene abbia trovato molte applicazioni in fisica pur evidenziandone ultimamente le numerose limitazioni, mostra oggigiorno tutta la sua inadeguatezza nello spiegare i comportamenti naturali e nel comprendere le scienze della vita. Lo stesso Noam Chomsky, teorizzatore del linguaggio, definisce la capacità linguistica come «un insieme di regole che possiamo chiamare la grande matematica del linguaggio».

 

Ovviamente vi è del vero nel riuscire ad individuare nelle regole grammaticali un parallelo con quelle matematiche e nel poter speculare, come fatto da Martin Nowak ed al. (2001, «Science»), che vi sia una legge matematica applicabile al linguaggio umano. Il parallelo, però, ha l’effetto di screditare differenti sistemi comunicativi propri delle specie animali differenti dall’uomo o appartenenti ad altri regni, come quello vegetale che, essendo altrettanto complessi ed estranei, non riescono ad essere «intrappolati» nel linguaggio matematico.

Ciò che rende il linguaggio, o meglio il modello comunicativo, umano complesso e sofisticato è principalmente dovuto a due aspetti: il fatto che essendo uomini, noi stessi, siamo in grado di coglierne le più profonde sfaccettature e la difficoltà che abbiamo nel comprendere le infinite vie comunicative presenti in natura. Non c’è dubbio che una serie di concause abbiano portato l’uomo a servirsi di una grammatica e di un sistema articolato di suoni per trasmettere messaggi precisi rapidamente e che questa abilità acquisita in migliaia di anni di evoluzione abbia permesso l’invenzione della scrittura, che è probabilmente la ragione primaria del grande sviluppo delle nostre popolazioni.

 

La nascita dell’astrazione

 

Vi è, inoltre, lo stretto parallelo tra la possibilità di liberare le mani della deambulazione per mezzo della posizione eretta e lo sviluppo di un sistema gesticolatorio, che si è man mano articolato in suoni sempre più complessi e ha portato all’evoluzione delle corde vocali. A riprova di questo fatto vi è l’attuale permanenza nell’uomo del movimento delle mani per accompagnare la comunicazione di concetti astratti. Proprio nella capacità di astrazione risiederebbe, dunque, l’esigenza di un linguaggio simbolico, prima (gesti, pittura, musica) ed orale, poi (parola, scrittura). Ma da dove potrebbe esser nato questo bisogno di astrazione è ancora molto difficile definirlo. Mi piacerebbe proporre in questa occasione una prospettiva interessante sull’origine del pensiero astratto e, quindi, del linguaggio umano.

 

Certamente la vita quotidiana di un animale non necessita di rappresentare sottoforma di pensiero astratto tutto ciò che è necessario per le sue relazioni con gli altri componenti del gruppo o nei confronti dell’ambiente. L’astrazione nasce, pertanto, dal raffigurare idealmente (per mezzo, quindi, di immagini mentali) ciò che non può essere percepito attraverso i sensi e che non è strettamente legato alla quotidianità. Mi permetto di suggerire una possibile spiegazione di questa apparentemente inspiegabile emergenza dell’astrazione nell’essere umano.

Con l’affrancamento degli arti anteriori dalla deambulazione, l’uomo ha potuto sperimentare tutta una serie di azioni che hanno condotto alla più grande scoperta della nostra specie: l’agricoltura. Grazie a questa pratica, probabilmente derivata da una casualità (alcuni semi trasportati involontariamente da popoli di cacciatori-raccoglitori nomadi, che germinando, hanno attratto l’attenzione e la curiosità di quei proto-agricoltori), l’uomo ha potuto stabilire una sorta di presuntuoso controllo dei ritmi naturali, liberandosi dalla dipendenza dal continuo spostamento e gestendo la produzione di cibo compatibilmente con il proprio fabbisogno.

 

La scoperta del tempo

 

Lo sviluppo dell’agricoltura, però, richiede la capacità di preservare i semi, prevedere la quantità di raccolto della stagione fredda o secca, organizzare i cicli di coltivazione, etc., tutte abilità che prevedono lo sviluppo di un concetto che noi diamo per scontato, ma che segna un passaggio fondamentale nella storia di Homo sapiens: il tempo. Avere la capacità di immaginare il tempo, concettualizzare il futuro, ha permesso all’uomo di compiere tutte quelle attività che dovevano andare oltre il presente, l’azione immediata, per garantire il mantenimento del sistema agricolo da poco scoperto.

 

La concettualizzazione del futuro, dunque, è probabilmente alla base della possibilità di astrazione che ha permesso agli uomini di articolare il linguaggio orale per esprimere immagini astratte che man mano si andavano formando nelle menti dei primi agricoltori. Concetti come «domani», la «prossima stagione delle piogge», la «prossima semina» sarebbero inesprimibili senza un sistema simbolico astratto formato da gesti manuali e, soprattutto, parole organizzate per mezzo di una grammatica. Quella della «scoperta del tempo», mi sembra la spiegazione più plausibile per la nascita dei linguaggi e delle lingue.

Sebbene il grandioso sviluppo del linguaggio orale umano abbia da sempre appassionato scienziati e linguisti, la difficoltà nell’approfondire lo studio della comunicazione in natura ha mistificato e declassato le altre forme di linguaggio. Rispetto alle strategie comunicative adottate dai canidi, ad esempio, il linguaggio orale umano sembra una raffinazione di un’unica delle infinite vie possibili per scambiare quei pacchetti di segnali fondamentali alla vita. I segnali olfattivi (come le tracce di urina contenenti feromoni), visivi (come il movimento delle orecchie, della coda o del pelo paragonabili solo in parte alle espressioni facciali umane), posturali (come i giri su se stessi o intorno agli altri, l’accucciamento, la dominanza, la remissività), gli infrasuoni, gli ululati, i guaiti, sono solo alcuni degli innumerevoli modi di «parlare» con modelli differenti di linguaggio.

 

Se siamo abili, quindi, nel differenziare il linguaggio astratto (appartenente, con molta probabilità, esclusivamente alla specie umana) da quello comunicativo, ci rendiamo facilmente conto che le sfumature e le differenti strategie messe in atto dal mondo naturale, potranno riservare ancora grandi sorprese.

 

La comunicazione chimica

 

Nulla o quasi si conosce, per esempio, del linguaggio adottato dalle piante per scambiarsi informazioni che vanno al di là del semplice binomio attacco/difesa, ma che invece comprendono la ricerca delle fonti d’acqua e di sali minerali, della presenza di pericoli ed addirittura di emozioni paragonabili a quelle animali, come la paura e la felicità. È noto che molte piante utilizzino messaggi chimici per trasmettere pacchetti di informazione per via aerea o attraverso il suolo.

Sostanze volatili (come l’etilene ed il metilgiasmonato) mettono in allerta esemplari vicini dell’avvicinamento di parassiti o incentivano la maturazione dei frutti avvertendo l’arrivo delle piogge. Sostanze alcaloidi (come la nicotina o la cocaina) sono state sviluppate come difesa dagli insetti, ma anche come traccia per le future generazioni di piante cresciute in quei luoghi attaccati.

 

Sono, davvero, ancora poche però le conoscenze che possediamo su queste vie comunicative. Che tipo di messaggi gli alberi si scambiano attraverso quell’immenso intreccio di radici nel sottosuolo? Cosa si comunicano un batterio o un fungo ed una piantina di fagiolo quando stabiliscono quel legame indispensabile (nodulo radicale) per la reciproca sopravvivenza? Quale segnale trasmette un albero tagliato a quelli vicini? Sono tutte domande a cui non sappiamo dare una risposta, se non adottando quel riduzionismo meccanicista adottato da Chomsky per interpretare la grammatica umana come matematica del linguaggio, e cioè definendola chimica del linguaggio. Siamo consapevoli delle sostanze scambiate perché possiamo misurarle, estrapolarle, rilevarle. Ma se un qualunque essere vivente esaminasse un essere umano non rinverrebbe quello stesso scambio chimico che porta all’invio di messaggi, identico a quello delle piante? O se potessimo far interpretare ad uno scimpanzé quella contorta produzione di suoni che esce dalla nostra bocca, non gli sembrerebbe un compito tanto arduo quanto per noi comprendere il loro linguaggio?

Ovviamente, con queste domande provocatorie non si vuole sminuire il valore dell’affascinante sistema comunicativo umano, quanto rendere la giusta considerazione alle vie alternative adottate dalla natura.

I cetacei, ad esempio, usano un sistema di ultrasuoni di cui ora comprendiamo una minima parte, ma che si è scoperto è influenzato, come nei dialetti umani, dalla posizione geografica del gruppo. I delfini sembra si scambino messaggi di felicità, richieste di aiuto, schiocchi di conforto o di minaccia. Le balene inviano i propri profondi echi a chilometri di distanza. E così i serpenti in grado di percepire le più labili tracce chimiche presenti nell’aria (e chi dice non siano anche in grado di produrre tracce chimiche di comunicazione oltre quelle ormonali?), o gli uccelli con i loro canti apparentemente simili all’orecchio di un ascoltatore distratto, ma sempre più differenziati per gli esperti. Se i merli non fossero in grado di comunicare, con un significato ben preciso ai propri simili, il segnale di fuga emesso in presenza di un pericolo, a cosa servirebbe l’attrarre così tanto l’attenzione di un potenziale predatore?

Probabilmente una delle branche più affascinanti della biologia e dell’etologia è quella della comunicazione e del linguaggio in natura. Questa ci porta a riflettere su aspetti che vanno al di là della linguistica e che comprendono l’evoluzione. Una delle tesi proposte recentemente da Nowak nel suo libro Supercooperators è che lo sviluppo della cooperazione degli esseri umani sia favorito dal linguaggio per mezzo della reciprocità indiretta. In altre parole dall’idea che gli altri si fanno di noi e che quindi trasmettono a chi ci sta di fronte in un certo momento. In questo modo ogni volta che ci confrontiamo con qualcuno nella vita quotidiana possiamo aspettarci che l’altro conosca già la nostra propensione all’altruismo o all’egoismo. Quindi, ci conviene comportarci sempre in maniera cooperativa e non competitiva. Soprattutto dinanzi a chi, stando al sentire comune, è ritenuto altruista.

 

Sono convinto, però, che tale reciprocità indiretta non sia strettamente legata all’essere umano poiché l’unico dotato di un linguaggio grammaticale, come afferma Nowak, e che sono numerosi gli esempi in natura di comportamenti cooperativi determinati dalla comunicazione. Spesso, ad esempio, i babbuini tendono ad emarginare dal proprio gruppo gli individui che hanno violato alcune regole sociali (come la violenza sulle compagne di altri maschi), trasmettendo ai componenti del gruppo o di gruppi vicini informazioni riguardo quegli esemplari, o a comportarsi in maniera amichevole nei confronti di chi in precedenza aveva mostrato cooperazione spulciando (effettuando il grooming, in gergo) qualcun’alto appartenente al gruppo. Questa sorta di effetto «gossip», per il quale «se ti osservo comportarti bene con gli altri o se lo percepisco attraverso una comunicazione orale, chimica o rituale, mi comporterò bene con te», non necessita, contrariamente a quanto affermato da Nowak, di un linguaggio orale complesso. Vi sono infinite vie per comunicare qual è il comportamento di un individuo in un gruppo. Tra gli insetti sociali, come api e formiche, questi potrebbero essere differenti messaggi chimici rilasciati quando si è in presenza di un cooperatore o di un competitore. Nel caso dei leoni marini, dei cervi o degli gnu è facile comprendere l’atteggiamento aggressivo o più pacifico dalla quantità di ferite sul corpo dei maschi nei rituali d’amore.

 

È chiaro, quindi, che le numerose possibilità di trasferimento di messaggi consentono agli esseri viventi una gamma di relazioni che con molta difficoltà riusciamo a comprendere. Paradossalmente è più facile che un cane capisca quello che noi cerchiamo di comunicargli, che non noi quello che lui cerca di dirci. Questo può voler dire, allo stesso tempo, che l’uomo sia così intelligente da riuscire a trasmettere informazioni ad altre specie o talmente stupido, al contrario del suo cane, da comprendere ben poco i suoi segnali. Si tratta di una questione di prospettive. Se, però, consideriamo le reti di comunicazione interspecifiche esistenti in natura (addirittura tra regni differenti), un dubbio sorge.

Probabilmente la presunzione di un linguaggio che permette anche di scrivere i sacri libri della religione, ci ha fatto a lungo dimenticare il linguaggio naturale, quello sviluppato primariamente per cooperare con i nostri simili e poi per mantenere i legami con le altre specie. Forse, sarà il caso, per l‘Homo sapiens di tornare a scuola per imparare, non più solo la matematica della linguaggio, ma soprattutto la grammatica della Natura.
Pubblicato su Villaggio Globale di Giugno 2011