La macchina pensante e l’anima esistente

Cogito ergo sum, ovvero «penso dunque sono», è la celeberrima espressione utilizzata da Cartesio per legittimare la consapevolezza umana di essere qualcosa. La sua macchina vivente dotata di anima e scomponibile in una res extensa ed in una res cogitans, attribuibile unicamente all’uomo in quanto, appunto, creatura pensante non poteva esser tale se non proprio mediante la certezza. Ed è, infatti, nella coscienza che da sempre si identifica la capacità dell’essere umano di comprendere se stesso, il mondo e le leggi che lo governano. Ma già nel 500 Montaigne ammetteva che «la presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. […] È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si eguaglia a Dio, che si attribuisce prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace».

In questo scritto polemico del filosofo francese è rilevante la sua capacità di individuare nella «immaginazione» l’origine della presunzione umana di assomigliare a Dio. Sta qui, appunto, il nodo gordiano del pensiero come fonte sublime di rappresentazione. In altre parole, senza la capacità di immaginare non potremmo avere la presunzione di essere. Sta proprio nell’aver sviluppato l’abilità mentale di astrarre, grazie all’invenzione dell’agricoltura ed alla necessità di pensare al domani e non solo all’oggi, la ragione per cui l’essere umano è in grado di guardare a se stesso attraverso gli occhi di un osservatore esterno. Il divario nelle due visioni di Cartesio e Montaigne sta proprio nel riconoscere all’uomo quest’esclusiva capacità o nel non essere stati in grado di comprendere quella in possesso degli altri esseri viventi.

 

Sarà Gian Battista Vico, criticando aspramente la visione cartesiana, ad aggiungere un elemento fondamentale alla definizione del pensiero. Egli, infatti, giudicherà il «penso dunque sono» una svalutazione dell’ontologia e mera affermazione dell’autocoscienza in una definizione assolutistica. Secondo Vico, invece, è solo attraverso lo scorrere del tempo che la coscienza può avere manifestazione ontologica e, dunque, nel relativismo trasformare la definizione in «penso dunque esisto». L’esistenza, e non la semplice consapevolezza di sé, diventa elemento del pensiero in quanto basato nel sistema spazio-temporale universale e rilevabile solamente con l’ammissione della sua relatività. Pensare, quindi, non renderebbe consapevoli di essere, ma faciliterebbe la comprensione della propria esistenza in rapporto con il resto dell’universo. In altre parole, io esisto perché pensando sono in grado di riconoscere la realtà che mi sta intorno.

 

Per comprendere meglio tale aspetto fondamentale del concetto di pensiero nella storia della scienza e della filosofia, è possibile immaginare la realtà di molti uomini costretti in stato vegetativo ed alimentati per mezzo dei supporti medici. La loro condizione viene spesso definita «priva di coscienza», volendo specificare la loro incapacità di comprendere il proprio stato. Secondo Cartesio l’impossibilità di pensiero renderebbe tali uomini incapaci di essere. In realtà pur senza comprendere il proprio stato, da un punto di vista relativistico, gli uomini in condizione vegetativa esistono per gli altri in grado di pensare a loro come entità nello scorrere del tempo ed in relazione allo spazio e alle cose circostanti.

Il fatto che l’uomo vegetativo non sia spesso in grado di pensare, fa sì che la sua «esistenza non esista» per lui, ma non è detto che ciò sia vero anche per gli altri in grado di pensare a lui. L’essere, inteso in modo assolutistico, come far parte della materia vivente diventa, quindi, irrilevante ai fini della coscienza di sé, cioè dell’esistere.

 

Il pensiero, pertanto, sembra in grado di definire le esistenze e comprendere la propria condizione, ma come sostiene Montaigne, quanto questo è vero esclusivamente per l’essere umano? Come possiamo stabilire che pensare sia la chiave per la coscienza di sé? E, soprattutto, come dimostrarlo negli animali non umani? Il filosofo Hilary Putnam ha ammesso qualcosa che la «creatura che si eguaglia a Dio» con difficoltà accetta: «Il mondo a cui apparteniamo è un mondo di uomini, e quello che è consapevole o inconsapevole, quello che ha sensazioni e quello che ne è privo, quello che è simile dal punto di vista qualitativo a qualcos’altro e quello che è dissimile, dipende tutto in ultima analisi dal nostro giudizio umano circa la somiglianza e la diversità».

Ci risulta molto complicato comprendere il pensiero degli altri animali essendo noi uomini e, seppur è innegabile la straordinaria evoluzione della nostra res cogitans, è evidente quanto sia difficile entrare nella mente degli altri esseri viventi per capirne il loro pensiero.

Definendoci esseri razionali spesso dimentichiamo di esser mossi nella maggior parte delle situazioni da emozioni che interrompono il contatto tra la corteccia prefrontale, adibita alla programmazione ed al pensiero nel futuro e l’amigdala, antica area del cervello specializzata nel processare le sensazioni.

Sta qui, probabilmente, la ragione per cui più spesso ci comportiamo «da animali», cioè da ciò che in realtà siamo, invece che da «uomini razionali».

La corteccia prefrontale si è enormemente sviluppata negli ultimi millenni di evoluzione umana e, come già proposto di recente dal sottoscritto, si è dimostrato che tale modifica anatomica è stata certamente indotta dalla necessità di immaginare, quindi di pensare, al futuro.

L’avvento dell’agricoltura ed il radicale cambiamento da una vita di caccia-raccolta nomade ad una sedentaria di coltivazione ha creato la necessità di immaginare il tempo, prevedere il futuro, andare oltre l’idea di passato e presente. Forse la connessione tra amigdala «pre-umana», presente in quasi tutti i cervelli degli altri animali, in grado di provocare azioni conseguenti ad emozioni/sensazioni e corteccia prefrontale, può esser vista come il ponte di collegamento tra cervello pensante nel presente/passato e cervello pensante nel futuro.

 

Questo dimostra, pertanto, mettendo d’accordo sia i fautori dell’uomo come unico essere razionale sia quelli che vedono in ogni creatura un essere pensante, che esistono differenti forme di pensiero e da queste derivano diversi modi di stare al mondo. Il pensiero nel passato/presente è caratteristico della maggior parte degli animali (e forse anche delle piante) ed è utile per coloro che «vivono alla giornata» adottando una serie di comportamenti atti a provvedere al proprio sostentamento quotidiano. Specie in grado di sviluppare forme di socialità, come gli imenotteri (api, formiche, termiti, etc.), possiedono un tipo di pensiero collettivo nel futuro, agendo (ad esempio mediante la raccolta di cibo in sovrabbondanza) per fronteggiare i periodi di carestia. Il singolo individuo, pensiamo ad una formica, probabilmente non è in grado di «immaginare un futuro», ma il suo gruppo, per processi ancora poco chiari, acquisisce questa abilità. È probabile che le prime civiltà umane, dovendo provvedere alla coltivazione e vivendo in gruppo, abbiano portato alle estreme conseguenze il comportamento degli animali sociali e trasferito da una coscienza collettiva ad una individuale la capacità di astrarre, e quindi immaginare, il futuro. La liberazione degli arti anteriori dalla deambulazione ed il successivo sviluppo del linguaggio hanno fatto il resto.

 

Tra macchina pensante ed anima esistente vi sono, dunque, infinite sfumature. La capacità di pensare al tempo ha portato l’essere umano ad immaginare un futuro e con questo ad astrarre la realtà (inventando religioni, costruendo piramidi, telescopi ed acceleratori di particelle). Anche gli animali (e le piante, probabilmente) presi singolarmente pensano, ma lo fanno perlopiù nel presente o al massimo nel passato. Alcuni animali sociali e probabilmente i primati, alcuni cetacei, cani e gatti (forse anche perché tra i più studiati dall’etologia) sono in grado almeno in parte di astrarre il pensiero, di immaginare se stessi ed intravedere un futuro, se non altro a breve termine. L’uomo grazie ad un salto evolutivo ancora nell’ombra delle conoscenze antropologiche ha immaginato cosa sarebbe potuto accadere domani e da qui ha iniziato a stravolgere il pianeta.

 

Come afferma Marc Hauser nel suo magnifico saggio Menti Selvagge, cosa veramente pensano gli animali: «Soltanto un piccolo numero di specie animali ha evoluto uno strumento di autoriconoscimento che dà la possibilità di distinguere se stessi dalle altre entità del mondo. La nostra specie può considerarsi una parte a sé di questo più piccolo sottoinsieme di animali, in quanto ha la capacità di capire cosa significa avere consapevolezza di sé, avere condizioni della mente ed esperienze emotive uniche e personali».

La nostra capacità di pensare al futuro ci ha resi consapevoli della caducità della vita, dell’esistenza della morte, della fragilità del pianeta. Quel pensiero che ha permesso la conquista del mondo, lo sviluppo della scienza e della filosofia e il notevole progresso tecnologico sta, allo stesso tempo, minando le basi della vita sulla terra. I mari sono stati quasi del tutto svuotati e le aree forestali follemente dimezzate, le specie si estinguono ad un ritmo incalzante ed i livelli di inquinamento degli ecosistemi sono i più alti nella storia della Terra. Una creatura, forse l’unica, capace di pensare al futuro, di immaginare un domani, ha il dovere morale di far sì che il pianeta non venga distrutto sotto i colpi dell’ingordigia, ma continui ad evolversi rigoglioso e ricco di vita. Una creatura che immagina il futuro ha l’obbligo di prendersene cura.

Pubblicato su Villaggio Globale di Luglio 2011