Altai: il regno del leopardo delle nevi

Questo sito patrimonio dell’Unesco, poco noto al turismo di massa, è uno scrigno di bellezze e peculiarità

 

Ci sono zone del pianeta dove la Natura sembra essersi divertita a sperimentare, mescolare e combinare insieme differenti elementi biologici, geologici e antropologici creando uno scrigno di diversità unico e straordinario. Una di queste aree è certamente la remota regione dell’Altai, all’incastro tra Russia, Kazakistan, Mongolia e Cina. Ombelico dell’Asia , incubatore di culture, imbuto di confluenza di specie e popoli, sorgente di strutture geologiche e di peculiarità biologiche.

Raggiungere la regione non è semplicissimo. Le città di Tomsk, Novosibirsk o Barnaul, nella Siberia Occidentale, sono i punti di accesso più agevoli per chi viene dall’Europa e da lì due giorni di autobus conducono nel cuore degli spettacolari Monti dell’Altai. Il viaggio è lungo, ma da togliere il fiato. La strada che solca le valli rastremate dai rilievi mongoli a oriente e kazaki a occidente, passando dalla Russia a nord alla Cina a sud, è stata più volte inserita nella top ten delle rotte più spettacolari al mondo.

La bellezza del sito è tale che l’UNESCO ha nominato il nord Altai Patrimonio dell’Umanità nel 1998 poiché “rappresenta una sequenza completa di zone altitudinali di vegetazione della Siberia centrale, tra cui la steppa, la foresta di conifere, il bosco misto, la vegetazione sub-alpina e la vegetazione alpina”.

I rilievi dell’Altai trovano origine nella collisione tettonica tra la placca indiana e quella siberiana. Molte zone di faglia caratterizzano quest’area (tra cui la faglia del Kurai e la faglia del Tashanta, recentemente identificata). Alcune di esse sono ancora tettonicamente molto attive. Ed è proprio questo corrugamento del paesaggio a renderlo indimenticabile. Fiumi di acqua cristallina scorrono nelle profonde valli confinate da aguzzi monti ricoperti di ghiacciai; prati fioriti si alternano a boschi che ammantano i fianchi delle montagne prima di lasciare il passo ai cespugli alpini; graniti e scisti metamorfiche colorano il suolo roccioso di cangianti sfumature e la fauna che, poco intimorita dalla presenza umana si avvista con molta facilità, è un coacervo ben riuscito di endemismi.

I ripidi pendii ospitano lo stambecco siberiano (Capra sibirica), mentre il raro Argali (Ovis ammon) pascola sui versanti più dolci. Ben 5 specie di cervi popolano la zona, tra cui il Wapiti dell’Altai (Cervus elaphus sibiricus), l’alce (Alces alces), la renna di foresta (Rangifer tarandus valentinae), il cervo muschiato siberiano (Moschus moschiferus) e il capriolo della Siberia (Capreolus pygargus). Fino a poco tempo fa, anche la rara gazzella della Mongolia (Procapra gutturosa) veniva avvistata su questi monti. Il bisonte era presente nelle montagne Altai fino al Medio Evo, forse addirittura sino al tardo XVIII secolo.

Ovviamente, la pletora di erbivori che errano nell’immenso paesaggio mantiene sana la catena alimentare fornendo risorse ai grandi predatori. Tra questi uno, certamente, può essere definito il sovrano incontrastato del regno: il leopardo delle nevi (Uncia uncia). Considerato tra i più rari, e certamente il più schivo (tanto da esser stato soprannominato “gatto fantasma”), felino al mondo, questo leopardo bianco maculato dalla coda lunga e folta trova tra i monti dell’Altai l’habitat ideale e una delle aree di riproduzione preferite.

Grazie all’abbondanza di prede, anche altri grandi carnivori vivono nella zona. Sono molto diffusi il lupo, la lince e l’orso bruno, e nelle aree più settentrionali anche il misterioso ghiottone. C’è chi conferma che fino agli inizi del XX secolo la tigre è stata avvistata nelle zone meridionali dei monti nei pressi della cittadina di Barnaul.

Molte sono anche le specie di piccoli mammiferi come il Pika (Ochotona alpina), lo scoiattolo artico (Citellus undulatus) e il Chipmunk siberiano (Tamias sibiricus). Lo Sicista pseudonapaea è un piccolo topo endemico che realizza la sua tana all’interno dei tronchi di betulla.

La Tomsk State University (TSU, Russia) gestisce una stazione di ricerca proprio nel cuore della regione, nei pressi del ghiacciaio Aktru, dalla quale monitora i cambiamenti biologici che avvengono all’ecosistema in relazione alle variazioni climatiche di breve e lungo termine. Ricordo quanto rimasi scioccato, la prima volta che visitai la stazione, nell’alzare lo sguardo da una foto in bianco e nero scattata nel 1960 verso il ghiacciaio così come si presenta oggigiorno. Quasi metà della sua bianca lingua si è ritirata nella bocca dei monti, come se avesse incontrato del limone e si fosse ritratta colta d’improvviso dall’acidulo sapore. Ad averlo inibito, però, non è un agrume, ma un eccesso d’ingordigia umana che per seguire i dettami economici di una crescita infinita sta rilasciando in atmosfera, in meno di due secoli, ciò che la natura aveva stoccato per millenni nel sottosuolo.

Dalla stazione di ricerca, inoltre, non si valutano solo i cambiamenti geomorfologici. Col mio gruppo di ricerca stiamo avviando un progetto di studio e monitoraggio proprio del sovrano incontrastato della regione. Un programma di studio difficile e faticoso, che potrebbe però fornire informazioni scientifiche indispensabili per conoscere meglio e tutelare la specie. Basti pensare, ad esempio, che le uniche immagini di ciuccioli di leopardo delle nevi sono state scattate da alcune foto-trappole posizionate grazie all’aiuto di un ex bracconiere nel 2013. La prima volta che veniva immortalato (e osservato da occhio umano) un piccolo di questo felino. Nulla si sa della sua riproduzione, delle relazioni tra maschi e femmine, delle cure parentali, etc. È per questa ragione che qualunque informazione acquisiremo mediante tecniche di fototrappolaggio, radio-tracking (tracciamento GPS che si effettua mediante radiocollari) e analisi del DNA sarà preziosa per la specie e l’intero ecosistema.

Alcune immagini di un leopardo delle nevi adulto sono state scattate nell’Aprile 2015 nel Parco Nazionale Sailugemsky, di recente creazione, è questo fa ben comprendere quanto le attività di ricerca e le misure di conservazione siano necessarie.  Negli ultimi vent’anni i bracconieri hanno ucciso più di 10 leopardi delle nevi nella zona per venderne le loro pelli e parti del corpo sul mercato nero della medicina tradizionale cinese. Se si considera che il leopardo delle nevi è incluso nella categoria “in via di estinzione” della Lista Rossa IUCN e si stima che la popolazione sia inferiore ai 4.000 individui, di cui solo 2.500 si ritiene siano in grado di riprodursi in natura, è facile comprendere come l’uccisione di anche soli 10 individui per ventennio possa rappresentare la condanna definitiva per la specie. Se a questo si aggiungono i cambiamenti climatici, che stanno profondamente alterando l’habitat del felino, il rischio è davvero elevato.

D’altronde, ci sono stati mutamenti climatici più lenti nel corso delle ere geologiche che rappresentano la ragione della particolare composizione della comunità di mammiferi della zona. La fauna che attualmente vive tra i monti dell’Altai è molto simile a quella che ha caratterizzato il Pleistocene:  le dimensioni del corpo di erbivori e predatori sono relativamente grandi e la composizione in specie unica.

Questo mix è il risultato delle recenti ere glaciali che hanno preservato e assemblato grandi erbivori e predatori di specie associate alla steppa, al deserto e agli ecosistemi alpini in un unico, eccezionale, serbatoio. Questi tre biomi moderni custodiscono la maggior parte dei mammiferi del Pleistocene sopravvissuti sino ad oggi e l’Altai è considerato una sorta di rifugio dell’ultima comunità di mammiferi dell’era glaciale più recente.

Ma non sono solo i mammiferi a caratterizzare la regione. Molti uccelli popolano i cieli dell’Altai tra i quali alcune specie simbolo come il Grifalco (Falco altaicus), lo Zokor siberiano (Myospalax myospalax), l’Aquila reale (Aquila chrysaetus), le Gru (Grus leucogeranus e Grus vipio) e la Cicogna nera (Ciconia nigra). Anche i rettili e gli anfibi abbondano nelle zone steppiche e desertiche, e tra le pozze e i rivoli d’acqua, che incessantemente si alternano a montagne e ghiacciai senza soluzione di continuità. La maggior parte di questi vertebrati è endemica, così come lo sono molti insetti, tra tutti la bella farfalla apollo della Siberia (Parnassius apollo sibiricus). La regione, essendo rimasta per lungo tempo isolata e poco studiata, è spesso teatro della scoperta di specie ancora non classificate. Molti artropodi che vivono nell’Altai, ad esempio, risultano ancora ignoti alla scienza.

Certamente l’incredibile diversità faunistica la si deve alla presenza di una vegetazione varia e tipica di ecosistemi molto differenti tra loro che si distendono dalle valli sino alle vette delle alte montagne. Fino a un’altezza di circa 300 metri sul lato settentrionale e 600 metri su quello meridionale, la flora ricorda quella europea, con abbondanza di larici ai piedi dei rilievi. La steppa si distribuisce sino a quote di 250-360 metri e nelle valli spesso sino a 1.600 m. D’impovviso, salendo, è la vegetazione alpina a fare da padrona del territorio. Alberi come la Betulla, il Pioppo e il Pino cembro crescono a quote tra 1900 e 2475 m, mentre gli abeti non superano l’altitudine di 760 m. I prati alpini annoverano primule, astragali, aquilegie e iris. Ben al di sopra del limite altitudinale della vegetazione arborea crescono la Saxifraga oppositifolia (fino a un’altitudine di 2595 m) e la famosa Dryas octopetala, pianta dalla quale ha preso il nome uno stadiale (periodo geologicamente breve di clima freddo) recente. Solo un albero, il Larice siberiano (Larix sibirica), cresce spesso fino a un’altitudine di 2130 m, entrando nel guinness delle piante con fusto che crescono a maggior altitudine.

foto-5-696x464La regione del Gobi-Altai al confine con la Mongolia è sicuramente la più biodiversa in termini floristici e annovera molte specie minacciate o a rischio di estinzione. Tra queste, alcune piante dalla particolare conformazione a cuscino crescono perfettamente adattate a un ambiente povero di nutrienti e sono caratterizzate da una serie di adattamenti fisiologici particolari finalizzati alla sopravvivenza, come la crescita lenta e la riproduttività ritardata. Queste “piante a cuscino” vengono considerate veri e propri ingegneri dell’ecosistema grazie alla loro capacità di mantenere temperature e umidità più elevate nel suolo sotto di esse rispetto alle aree adiacenti. Alcune alterano persino la concentrazione di macronutrienti nel terreno, arricchendolo e consentono ad altre specie di colonizzare più facilmente gli ambienti brulli che le piante a cuscino abitano. Ho trovato in queste essenze vegetali particolari, che ammantano i suoli aspri delle montagne dell’Altai, la conferma più evidente alla mia teoria delle nicchie biodiversità-dipendenti (BNDT) proposta alcuni anni fa: la ricchezza di specie viene significativamente aumentata dalla presenza delle piante a cuscino in grado di creare nuove nicchie nelle aree che colonizzano.

Le montagne dell’Altai hanno mantenuto un clima stabile dopo l’ultima era glaciale che non solo la combinazione di mammiferi è rimasta sostanzialmente la stessa dell’epoca, con poche eccezioni come i mammut estintisi, ma anche la storia dell’uomo si è preservata in queste particolari condizioni. Oltre, infatti, agli infiniti anfratti distribuiti su tutto il territorio e decorati da magnifiche pitture rupestri, nel 2008, nella Grotta di Denisova è stato scoperto un altro eccezionale reperto antropologico: un ominide (che ora porta il nome appunto di Uomo di Denisova), risalente a circa 40.000 anni fa. I Denisovani erano contemporanei dei Neanderthal e dei primi Homo sapiens, discendenti da ominidi che hanno raggiunto l’Asia prima degli esseri umani moderni. All’interno della stessa grotta sono state scoperte ossa di Neanderthal e strumenti realizzati da Homo sapiens, aspetto che rende questo luogo l’unico al mondo in cui è certa la presenza contemporanea dei tre ominidi.

La regione dell’Altai non smette mai di sorprendere. E così è facile ritrovarsi dinanzi a pastori a cavallo kazaki e, a pochi passi di distanza, osservare falconieri mongoli esercitare le loro antiche tecniche di caccia. Questo luogo affascinante è ritenuto anche l’origine di un enigma socio-culturale noto come fenomeno Seima-Turbino, avvenuto intorno all’età del bronzo (4000 anni fa) e caratterizzato da una migrazione rapida e massiccia dei popoli della regione in parti distanti dell’Europa e dell’Asia. La ragione di questi spostamenti è pochi chiara, ciò che è certo, invece, è che questi magici territori custodiscono tracce inestimabili di storia naturale. Un museo a cielo aperto risparmiato dal turismo di massa e apprezzato da chi, in punta di piedi, vuole e vorrà conoscere le bellezze nascoste del mondo.

 

Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.

Biologo ambientale ed evolutivo,

Associate professor, Biological Institute, Tomsk State University, Russia

Research Associate, Dep. Forestry and Natural Resources, Purdue University, USA

 

Pubblicato su InNatura di gennaio-marzo 2018  [leggilo in pdf] – TESTI E FOTO DI ROBERTO CAZZOLLA GATTI