Alla scoperta di remote foreste e della loro biodiversità nell’Africa inesplorata

A piedi, per un mese, attraverso un ecosistema tropicale misterioso e sconosciuto

 

Da bambino sono sempre stato affascinato dai luoghi inesplorati. Mi sembrava incredibile che alla soglia del XXI secolo ci fossero ancora posti sul nostro pianeta mai visitati dall’uomo perché troppo lontani, troppo difficili, troppo estremi o semplicemente ignorati. Ovviamente, ero consapevole, sulla scorta dell’errore di presunzione commesso dai vari Cortes, Pizarro, Colombo, etc., che quelli considerati in Occidente territori sconosciuti, lo erano principalmente per l’uomo bianco, poiché le popolazioni indigene da tempo abitavano quei posti remoti.

C’è, però, qualcosa di magico e di misterioso, qualcosa di affascinante ed eccitante nel poter scoprire posti che almeno la tua fetta di civiltà ignora. È ciò che, da sempre, ha mosso gli intenti degli esploratori da Diaz a da Gama, da Cook a Livingston, sino alle imprese recenti di Flannery e Fay.

L’esplorazione, sebbene stimolata principalmente dall’entusiasmo del viaggio di scoperta, ha sempre portato con sé molto più di una difficile passeggiata in terre lontane. Durante queste avventure specie sconosciute, paesaggi inimmaginabili, risorse inestimabili e popolazioni autoctone sono stati scoperti, descritti e spesso, purtroppo, anche distrutti.

Quello che ritenevo già impossibile negli anni 70-80, mi è parso ancor più assurdo dopo trent’anni di progresso tecnologico e di imprese ai limiti del possibile. Eppure, quando durante uno dei miei recenti viaggi in Africa (dove ho trascorso buona parte degli ultimi cinque anni completamente immerso nello studio della rigogliosa bellezza delle foreste tropicali del continente), mi sono imbattuto nello spartano, ma confortevole campo-base della piccola Fondazione Italo-Gabonese per l’Ecoturismo (FIGET) e lì ho conosciuto il prof. Gustavo Gandini dell’Università di Milano, che la presiede e ne coordina le attività, ho subito capito che dopo secoli di avventure l’esplorazione non era ancora finita.

Il campo della FIGET è l’ultimo avamposto umano prima d’immergersi in quell’“abisso verde”, come lo aveva definito il biologo Mike Fay della National Geographic (probabilmente l’unico Occidentale ad averlo attraversato sinora), che è la foresta del Parco Nazionale dell’Ivindo, in Gabon. Si tratta di una delle più vaste estensioni di foresta pluviale d’Africa, geograficamente inserita all’interno del bacino del Congo, pur possedendo caratteristiche peculiari ed esclusive. Il parco fu istituito proprio dopo che Fay, con il suo progetto denominato “Megatransect” di attraversamento a piedi di oltre duemila chilometri di foresta dal Congo al Gabon, rivelò al mondo intero e all’allora presidente del Gabon, Omar Bongo, la bellezza di quei luoghi. Il lungimirante primo ministro decise così di istituire 13 degli attuali parchi nazionali del Gabon.

L’Ivindo, però, dopo la missione di Fay è rimasto inesplorato per la maggior parte della sua estensione: una linea chiusa sulle carte (3000 km2) che ne sancisce la protezione legale dal 2002. Bracconaggio, deforestazione e costruzione di dighe hanno rosicchiato territori e diminuito le popolazioni, come quella degli ippopotami che un tempo vivevano numerosi nel fiume che dà il nome al parco e che ora sono ridotti a meno di una decina di esemplari. Con la limitazione, a partire dal 1998, delle concessioni forestali alla multinazionale del legno tropicale, Rougier, un accordo per la loro “gestione sostenibile” e l’intensificazione dei controlli antibracconaggio, il parco ha visto scemare le pressioni antropiche, ma l’interesse da parte di alcune compagnie energetiche cinesi ha continuato a lungo a minacciare una delle perle più preziose del parco: le cascate Kongou. Ed è proprio lì, sotto quei bellissimi salti d’acqua resa scura dai tannini che il fiume raccoglie dalla foresta, che la FIGET, grazie alla passione e alla determinazione dei suoi fondatori, ha messo in piedi un campo per accogliere ecoturisti davvero avventurosi che funge da deterrente contro distruttivi propositi di costruzione di centrali idroelettriche, di ampliamento delle concessioni forestali e di caccia di frodo. Da un ventennio quel presidio di palafitte dotate di letti in legno e zanzariere e in grado di accogliere una decina di turisti è stato sufficiente a garantire la conservazione delle cascate e delle foreste limitrofe. Col tempo, però, le difficoltà per raggiungere il parco e ottenere un visto per il Gabon, le instabili situazioni sociali e politiche dell’Africa centrale e le epidemie cicliche (come l’Ebola, che fortunatamente stavolta non ha colpito il Paese e i suoi gorilla, come nel 2006) hanno ridotto il numero di visitatori e riportato in auge le minacce sino a quel momento scongiurate.

Così, dopo mesi di organizzazione e riunioni su e giù per l’Italia abbiamo pensato, insieme alla fondazione, di dare un segnale. Di dire al mondo, e soprattutto a coloro che si sfregano le mani all’idea di trarre profitto da una delle ultime foreste vergini sulla Terra, che l’Ivindo non è abbandonato, remoto e solo. Sono stato incaricato di raccogliere informazioni scientifiche, geografiche e video-fotografiche (sarà realizzato anche un documentario in 3D) di un itinerario inesplorato, uno degli ultimi al mondo, il sogno d’infanzia insomma, affinché s’incrementino le conoscenze ecologiche sul parco e si possa creare un nuovo stimolante e avventuroso sentiero che aumenti in numero di ecoturisti (ovviamente sempre garantendo gruppi limitati e sostenibili) la cui presenza sia l’arma migliore per salvare queste cascate e le loro rigogliose foreste.

La partenza è imminente e mentre scrivo mi accingo a organizzare la complessa logistica di una missione che prevede un mese di cammino per oltre 150 km, attraverso paludi e foreste umide, senza mai dormire per due volte nello stesso luogo. Tutto questo, in altre parole, significa doversi portare viveri e attrezzature nello zaino, in spalla, per tutto il tragitto. Mentre leggerete questo articolo, all’uscita della rivista, dovrei essere a metà del percorso, in un punto di cui persino le mappe di Google hanno scarse informazioni e il villaggio più vicino è a 60-70 km di distanza (percorribile esclusivamente a piedi, ovviamente).

Probabilmente quando avrete la rivista tra le mani un mamba nero avrà attraversato la nostra strada (ad accompagnarmi ci saranno un’ex bracconiere pentito ora eco-guida e grande conoscitore della foresta, assunto dall’Ente Parco grazie all’intermediazione della FIGET, un battitore con tanto di machete, due portatori e una fotografa). In sei, camminando non meno di dieci chilometri al giorno dopo aver dormito in amaca tra scrosci di pioggia torrenziale e agghiaccianti urla di scimmie, tenteremo di attraversare le cascate Kongou, dove il fiume Ivindo si allarga creando rivoli con rapide e isolotti di vegetazione, per inoltrarci sotto una fitta e buia canopea, seguendo le piste tracciate dagli elefanti, tra liane e mastodontici contrafforti di alberi alti sino a cinquanta metri, sino a riemergere quasi duecento chilometri più a sud – dopo aver guadato il fiume Djidji sinuoso e ricco di specie acquatiche sconosciute alla scienza e osservato gorilla, bonghi ed elefanti presso la baia (o salina) di Langoué – nei pressi di una stazione ferroviaria fantasma, in attesa di un treno che ci riporti a casa.

E se trasportare il cibo di un mese in spalla tra fango ed enormi radici sembra la parte difficile, trovare acqua potabile dopo aver sudato con 28°C di temperatura e 85% di umidità – nonostante un reticolato idrografico esteso e ruscelli onnipresenti – diventa un’impresa nell’impresa. A volte si finisce per filtrare e disinfettare ciò che resta nelle pozze dei potamoceri e non è certo fresco e dissetante. Ma in foresta, quando davvero entri in contatto con lei, ne percepisci l’intricata rete di interconnessioni che collegano ogni essere lì presente, quando assorbi la sua armonia, ti sembra che nulla possa infastidirti. Non ti curi delle api del sudore, delle sanguisughe o dei vermi dei piedi nascosti negli acquitrini, della minaccia portata dalla temibile vipera del Gabon o degli elefanti di foresta che, spaventati, possono caricarti. Incredibilmente, a giorni di distanza dalla civiltà, lontano

da tutto quello che credevi, o ti illudevi di sapere, trovi la vera pace. Come dichiara, dopo aver vissuto con i gorilla di montagna in Uganda, al suo psichiatra l’antropologo Ethan Powell (Anthony Hopkins), nel celebre film “Instinct” tratto dal best-seller di D. Quinn “Ishmael”: “C’è più pericolo ogni giorno in una qualunque città del mondo di quanto ve ne sia in quelle foreste”.

E, allora, la speranza è che questa difficile esplorazione possa permettere a tanti (sia visitando questi luoghi di persona, ma anche dalla poltrona di un divano dinanzi a un televisore 3D)  di toccare con mano la pace che caratterizza simili ecosistemi dalla straordinaria bellezza e dall’altrettanta fragilità, affinché su di loro non incomba più il fucile del bracconiere o la motosega del disboscatore di turno, ma gli occhi curiosi di cercopitechi e scimpanzé, gli sguardi profondi di elefanti e gorilla possano imbattersi solo in binocoli e macchine fotografiche di coloro che quest’avventura vorranno continuarla in punta di piedi. In profonda sintonia con la Natura.

La FIGET di Giuseppe Vassallo

Giuseppe Vassallo è considerato console dell’ambiente in Gabon. Negli anni ’80 questo imprenditore, che possedeva uno delle più ampie fette di mercato della moquette in Italia, resosi conto che la globalizzazione spingeva a cambiare la tipologia di prodotto commercializzata dalle sue aziende per indirizzarle verso il parquet che avrebbe distrutto le sue amate foreste tropicali, decise di chiudere tutto e dedicarsi alla conservazione e all’ecoturismo presso il parco dell’Ivindo.

Così aprì i tavoli di trattativa nel 1994 tra il governo gabonese e la ditta di legname Rougier per arrestare la deforestazione. Nel 1999 il governo del Gabon lo invitò, dopo aver messo in piedi l’ONG Brainforest, a creare una fondazione che si occupasse di proteggere le foreste primarie della regione. Qualche mese più tardi Giuseppe Vassallo restò vittima di un’incidente stradale a Milano. L’anno successivo, grazie al supporto del suo amico Gustavo Gandini, docente all’Università di Milano e grande conoscitore dell’Africa, venne fondata la FIGET (Fondation Internationale Gabon Eco-tourisme, http://www.ivindo.org) alla quale il Ministero delle Foreste gabonese affidò in gestione i primi 120 km2 di foresta presso le cascate Kongou. La FIGET negli scorsi anni ha operato nel sociale, assumendo personale locale, costruendo una scuola e portando l’elettricità al villaggio di Loa-Loa.

 

Una foresta ricca di specie rare e sconosciute

Ancora molte specie che vivono nelle foreste del bacino del Congo sono ignote alla scienza. Conosciute con nomi locali e spesso fortuitamente rinvenute presso i mercati dei villaggi dai ricercatori (come di recente avvenuto per una nuova specie di camaleonte e di tarsio), si ritiene che tante attendano solo di esser scoperte. L’ittiofauna dei fiumi Ivindo e Djidji è state studiata solo parzialmente e rappresenta un esempio di eccezionale radiazione adattativa. La maggior parte degli invertebrati (insetti compresi) è pressoché non classificata e anche tra i vertebrati terrestri si attendono sorprese.

Molte delle specie note presenti nel parco dell’Ivindo sono di estrema rarità. Qui vivono la vipera rinoceronte, il misterioso uccello di foresta Bradypterus grandis, la lontra del Congo, il gorilla di pianura occidentale e l’elefante pigmeo. Si pensa che solo in questo parco vi siano oltre 600 specie di farfalle diurne. Ben poco si conosce di interi gruppi (dei chirotteri, ad esempio). Non vi è una check-list completa delle specie vegetali, nonostante la loro immobilità. In ogni metro quadrato di queste foreste emergono decine di specie di alberi differenti. Tra le chiome le epifite, le orchidee, i tucani, le scimmie e gli anfibi sfuggono facilmente ai censimenti.

 

Come si prepara una missione esplorativa

Unire l’esigenza di portare con sé viveri e attrezzatura necessari per un mese e la necessità di camminare leggeri non è facile. Videocamere e macchine fotografiche professionali possono arrivare a pesare, da sole, oltre cinque chili. Pertanto, è necessario ridurre il peso e il volume di tutto il resto. Per questa missione abbiamo scelto di dormire in amaca, piuttosto che in tenda, con telo tarp, che funge anche da poncho, per proteggerci dalle scroscianti piogge passeggere (e prevalentemente notturne). Inoltre, pentole, piatti e posate sono ridotti al minimo. Il tutto deve occupare non più di una scatola di scarpe. Il fuoco per cucinare lo si accende con la pietra focaia (ma è tutto così umido che non è per niente facile) o con fornellini a gas da campeggio (se sono disponibili le bombole nell’ultimo villaggio prima di entrare in foresta). Asciugamani e teli in microfibra devono necessariamente stare in due palmi. Ridurre il peso del cibo non è facile, soprattutto se si è vegetariani. Risotti liofilizzati, frutta secca e disidratata e proteine fornite dagli affettati di Muscolo di Grano sottovuoto, sono il carburante che alimenta l’esplorazione. Disinfettanti per l’acqua ai sali d’argento e qualche farmaco d’emergenza non devono mancare. I sacchi impermeabili sono fondamentali per guadare il fiume e non ritrovarsi tutto il contenuto dello zaino completamente bagnato.

 

 Consigli per il viaggio

L’obiettivo principale di questa missione è creare un nuovo, avventuroso, itinerario per ecoturisti da affiancare ai sentieri più brevi (e per tutti) già realizzati presso il campo sulle cascate. Una volta tracciato e rilevate le coordinate geografiche, l’idea è di consentire a gruppi di 6-8 persone, in due periodi all’anno (gennaio-febbraio e luglio-agosto) di percorrere in 10 giorni, guidati da personale esperto, un sentiero di circa 100 km completamente immersi nella natura tropicale, scendendo in piroga lungo il fiume, sino alle cascate, per poi proseguire a piedi. Per arrivare alle Kongou si può prendere un treno dalla capitale sino a Bouè e poi un taxi collettivo (taxi-brousse) sino a Makokou o un volo interno da Libreville che raggiunge quest’ultimo villaggio da dove, poco più a sud (Loa-Loa), ci s’imbarca. Ottenere un visto turistico per il Gabon non è semplice. La FIGET si occupa di organizzare il viaggio, l’alloggio presso le cascate e l’accompagnamento in foresta (per informazioni scrivere a: gustavo.gandini@trusttheforest.org).

 

Se il taglio sembra sostenibile, ma non lo è

Uno dei principali problemi che affliggono le foreste tropicali come quelle del Parco Nazionale dell’Ivindo è la deforestazione. Un recente studio (Cazzolla Gatti R. et al., The impact of selective logging and clearcutting on forest structure, tree diversity and above-ground biomass of African tropical forests, Ecological Research, 12/2014) dimostra, però, che anche pratiche ritenute più sostenibili, come il taglio selettivo (che ha preso piede anche in questa zona d’Africa), hanno conseguenze rilevanti sugli ecosistemi.

La ricerca ha analizzato i dati raccolti dopo quattro anni di ricerche in campo su 511 plot di foresta tropicale in Sierra Leone, Ghana, Camerun e Gabon. Le aree erano state gestite con differenti modalità: nessun taglio recente (foreste primarie), taglio selettivo (fino a 30 anni) e  ricrescita dopo taglio a raso (foreste secondarie di almeno 20 anni). I risultati suggeriscono che gli effetti del taglio selettivo sono maggiori di quelli che ci si aspetterebbe rimuovendo solamente le specie d’interesse commerciale e che questi possono persistere per decenni. Il taglio selettivo, e non solo la deforestazione totale, può ridurre significativamente la biomassa di una foresta tropicale, diminuire notevolmente la capacità di stoccaggio del carbonio e la biodiversità arborea.

 

Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.,

Biologo ambientale ed evolutivo

Associate Professor, Biological Institute, Tomsk State University, Russia

Research Associate, Dep. of Forestry and Natural Resources, Purdue University, USA

 

Pubblicato sul numero di aprile-maggio 2015 di Bio-Eco-Geo [leggilo in pdf] – Foto di Teresa Esposito e Roberto Cazzolla Gatti