In vista della preparazione di questo articolo per il nuovo numero di Villaggio Globale Trimestrale, riflettevo su quale potesse essere il vero significato dell’espressione “sviluppo tecnologico”. Siamo davvero sicuri di sapere di cosa parliamo? Siamo certi di non esser stati sopraffatti dallo strapotere della tecnica e di non aver perso più di quanto abbiamo guadagnato? Di cero ci sono state innovazioni tecnologiche straordinarie e utili, dagli smartphone ai potenti computer che solo sino a un ventennio fa sembravano mera utopia. Abbiamo occhi artificiali che scrutano lo spazio per noi, ipertecnologici sommergibili che esplorano le profondità marine. Possiamo operare un cuore con microcamere e sonde. Siamo capaci di vedere cosa c’è nel nostro corpo grazie a una TAC o a una risonanza magnetica. È innegabile che tutto questo sia davvero entusiasmante. È incontestabile che sia utile.
Però questa grandiosità, queste espressioni massime della creatività umana non devono farci dimenticare che, come scrivevo ne Il paradosso della civiltà, le civiltà, su cui si fonda il benessere di metà del mondo contemporaneo, sono state costruite sulla base delle sofferenze e dello sfruttamento dell’altra metà. I progressi medici sono stati compiuti a danno di povere cavie, umane e non, senza altra scelta che sottoporsi per pochi soldi a tremende sperimentazioni, spesso letali, perché costrette dall’impossibilità di difendersi, perché ritenute creature inferiori (definite, quindi, “animali da laboratorio”, come se la Natura li avesse creati per questo scopo) o per assurde discriminazioni razziali (basta pensare che molti esperimenti medici sono stati compiuti in epoca nazista sulle cavie ebree). I progressi della tecnologia, della scienza e, quindi, dell’umanità spesso si compiono col sacrificio di esseri viventi di cui ignoriamo il nome, la specie e la stessa esistenza. Raramente siamo riconoscenti a tutti coloro che sacrificandosi, a volte in maniera volontaria per un alto senso morale, altre volte spinti da forze esterne coercitive, hanno permesso il miglioramento della nostra attuale vita.
«Se poi si possa parlare di miglioramento vero, – scrivevo ne Il paradosso della civiltà – questo non può dirlo l’uomo civile. E non potrà dirlo sino a quando continuerà a distruggere la sua storia, i popoli che la custodiscono e i territori che la preservano. Senza questi arcani elementi nessuno è in grado di stabilire verso quale destino l’umanità è diretta. Nessuno può sapere qual è stato il punto di partenza e quale sarà quello di arrivo».
Allora, mentre ci pensavo, il quadro mi è sembrato più chiaro: viviamo in una civiltà fondata sulla tecnologia, ma per ottenere i suoi benefici non riusciamo a fare a meno di sfruttare i più deboli. Un assurdo controsenso, di una specie con un potere intellettivo superiore capace, però, di sopraffare subdolamente e senza pietà coloro che ritiene esseri inferiori. Una sorta di cancro in cui alcune cellule impazzite distruggono il proprio stesso corpo, con l’unico obiettivo di svilupparsi.
«Il tumore […] – così lo definivo ne Il paradosso della civiltà – è un piccolo segnale di un mondo malato. Il cancro è solo l’ultima evidente conseguenza di una civiltà allo sbando, che ha perso il suo contatto con la realtà. In ogni elemento di quell’illusorio paradiso artificiale vi è la traccia di un malessere generalizzato. L’acqua contaminata da pesticidi e metalli pesanti, il cibo dall’agricoltura intensiva, l’aria dall’inquinamento soffocante, il sole dall’ozono distrutto, il latte delle madri dal cocktail chimico della nuova tecnologia, gli intestini degli adulti dall’eccesso di carne e antibiotici, quello dei bambini dal debito contratto nell’utero intossicato da discariche e diossina. E così giorno dopo giorno, in una spirale di sventure e morte, il cancro si propaga tra gli uomini, tra quell’unica specie che ha deciso di non sottostare alle leggi della natura, di fare da sé. Di credersi un dio. Anno dopo anno quel che con tanta leggerezza l’uomo diffonde sulla Terra, rientra in lui attraverso l’intricata rete che congiunge tutti gli elementi del mondo. Gli restituisce quel pestilenziale dono che lui stesso ha generato e attraverso il tumore lo ammonisce sul destino che lo attende proseguendo su quella via».
Per quanto catastrofistica questa visione possa apparire, continuo a ritenere che questo sia esattamente ciò che avviene ai giorni nostri: creiamo tecnologia che necessita di altra tecnologia per poter bonificare i danni dalla prima provocati, in un circolo vizioso che conduce alla devastazione totale. È vero, gli smartphone ci hanno cambiato la vita, ma a quale prezzo? Pochi milligrammi di coltan, una terra rara presente solo nel bacino del Congo, necessari alla fabbricazione di ogni cellulare intelligente causano la distruzione di foreste, l’inquinamento di aria e fiumi, il massacro di popoli, lo sfruttamento lavorativo di bambini. L’assemblaggio di quegli stessi aggeggi multifunzione dà origine a fabbriche satolle di operai cinesi, intossicati dai fumi delle plastiche, che lavorano 16 ore al giorni e dormono sul pavimento. Per cosa poi? Per finire noi tutti, seduti a una cena di famiglia, a fissare rimbecilliti un display in attesa dell’ultima notifica di Facebook, invece di conversare con le persone care.
Il problema, però, non è il possesso stesso della tecnologia. Perché è innegabile quanto sia difficile non starne al passo. E la tecnologia di per sé non è il demonio. Il problema è l’abuso, il volere sempre di più, anche quando non ce n’è necessità. Produrre ogni anno l’iPhone 4 e poi 5 e poi 6, così come il Galaxy 4, 5, 6, o il Lumia 820, 920, 1020, etc. in una folle competizione di mercato, invitando la gente a buttar via (con una serie di rifiuti speciali derivanti) al modello acquistato solo un anno prima per acquistare quello nuovo, identico al precedente, ma con due-tre inutili funzioni in più è, questo sì, il demonio.
Le stampanti 3D creeranno gli organi del futuro per salvarci la vita. Onore a chi ha avuto una simile idea. Onore a coloro, quel 2% della popolazione mondiale, che si spremono le meningi per cercare di migliorare la vita di tutti. Non va, però, confusa questa tecnologia, geniale, utile, benefica, col futile abuso che ne fa il restante 98% dell’umanità per riempire le sue banali giornate. «I civili, – incalzavo ne Il paradosso della civiltà – continuando con presunzione divina a ritenersi superiori a ogni legge di Natura, proseguiranno nella loro opera devastatrice dell’ambiente e dell’uomo più debole. Prenderanno tutto ciò che possono per arricchirsi e lasceranno macerie e desolazione. Al posto delle foreste rigogliose di vita, spunteranno deserti e palmizi. Dove c’erano le barriere coralline pullulanti di pesci colorati, tartarughe e milioni di organismi ci sarà solo calcare disciolto. Laddove regnano le mangrovie, resteranno solo vecchie recinzioni putrescenti di allevamenti di gamberi. Per garantirsi questo accumulo di ricchezze dovranno continuare a sottomettere i propri fratelli, opprimere gli animali, cancellare gli ultimi selvaggi. Inventeranno ancora guerre di pace per sottrarre quell’oro nero, fondamentale ad alimentare la loro macchina di distruzione. Soggiogheranno popoli lontani per garantirsi rifornimenti costanti di materie utili al beneamato sviluppo, di cui non possono più fare a meno. Esploderanno pozzi petroliferi in Kenya, moriranno minatori alla ricerca dei diamanti in Sierra Leone, lavoreranno bambini nelle piantagioni di caffè della Colombia, piangeranno le donne disperate tra le palme da olio in Indonesia, tossiranno per lo smog delle loro industrie i tessitori di tappeti in India e si ammaleranno di tremendi tumori gli operai delle fabbriche di plastica della Cina».
A distanza di qualche anno, mio malgrado, la penso ancora così. L’ingegno umano, in grado di inventare le navicelle spaziali, mi fa rabbia. Come può una mente del genere essere capace allo stesso tempo di tanta sofferenza? Purtroppo però le menti di coloro in grado di creare non sono le stesse di chi è capace di distruggere. E le prime sono una minoranza rispetto alle seconde. Uno scienziato (di quelli seri, non di coloro che giocano con i ratti, i quali non si divertono affatto), un poeta, un violinista o un pittore non sanno neanche da dove si cominci una guerra. Molti hanno paura della propria stessa ombra, come potrebbero inventare la bellezza e distruggerla allo stesso tempo? La bellezza, anche quella tecnologica, è opera di menti geniali. Il problema è che tale ingegno finisce sempre nelle mani di menti mediocri che pensano solo al proprio tornaconto personale. «Tutto questo affinché l’uomo civile possa sostenere il suo benessere. Perché l’americano, l’europeo, il cinese, ma anche il nigeriano o il brasiliano oramai, possano continuare, in quell’assurda corsa verso l’autodistruzione, a crescere. Non c’è nulla sulla Terra che possa crescere indefinitamente senza consumare tutte le risorse disponibili e perire per la loro deplezione. L’uomo della civiltà non vuole ammetterlo. Continua a confidare nella sua scienza e nella sua tecnologia. Forse non ha il coraggio di riconoscere la sua appartenenza, come ogni cosa nell’Universo, alle inviolabili leggi della Natura».
Una semplice soluzione? Sobrietà… anche tecnologica!
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.
Biologo ambientale ed evolutivo
Professore Associato presso la Tomsk State University, Russia
Pubblicato sul numero N. 72 – Dicembre 2015 di Villaggio Globale Trimestrale