Cosa ci insegna il rapporto con gli orsi in Trentino
“Esiste una strada giusta;
è tutta colpa della nostra disattenzione e stupidità
se prendiamo quella sbagliata.”
HENRY DAVID THOREAU
Le Alpi trentine sono straordinarie e affascinanti. Ad esempio, quell’angolo di Natura selvaggia tra il parco Naturale dell’Adamello Brenta e il Parco Nazionale dello Stelvio che sopravvive tra valli urbanizzate, autostrade, meleti e vigneti è un gioiello di cui l’Italia e il mondo dovrebbero andar fieri. E lo è perché è in grado di tutelare una straordinaria biodiversità a tutti i livelli della rete ecologica, inclusi i grandi predatori come il gipeto, il lupo e l’orso che in altre zone d’Europa sono stati sterminati. Non è un caso che proprio il simbolo del Parco dell’Adamello Brenta sia un orso e che questo animale attiri centinaia di visitatori al giorno, certi di essere in una delle ultime aree selvagge d’Europa. Lo dimentichiamo spesso, ma siamo campioni europei di biodiversità e questo è grazie anche alle politiche di conservazione degli animali selvatici, anche di quelli che in tanti altri paesi del Vecchio continente sono stati eliminati perché “scomodi”. Questo scellerato addomesticamento della Natura e annichilimento della selvaticità tipico di alcuni paesi europei dove l’economia e l’industrializzazione sono al primo posto, però, abbiamo rischiato di compierlo anche in Italia agli inzii del Novecento. Non va dimenticato che il lupo nel Belpaese è arrivato sull’orlo dell’estinzione e che solo grazie agli interventi di biologi, associazioni ed enti di ricerca la specie è stata salvata “per la collottola”. E questo, per coloro che si staranno chiedendo “ma a noi cosa ne è venuto?”, in realtà ha portato enormi benefici oltre a quelli ecologici, tra i quali una riduzione naturale della pressione degli erbivori (caprioli, cervi, cinghiali, etc.) sulle attività agricole e produttive umane.

Nei giorni scorsi ha avuto molta eco l’articolo che ho scritto per La Repubblica subito dopo la scoperta del “mountain runner” (Andrea Papi) ucciso da un orso (Jj4) in Val di Sole in Trentino. In molti mi hanno inviato lettere di ringraziamento e sostegno per aver provato a chiarire cosa non va nel nostro rapporto con la Natura. Ho ricevuto, però, anche un paio di messaggi seccati da parte di chi non condivideva quanto da me esposto, che mi piacerebbe analizzare per tentare, ancora una volta, di far luce su questa vicenda che è emblematica dell’errata concezione che abbiamo del vivere su questa Terra.
Un lettore mi ha scritto:
“Posso essere d’accordo con lei quando l’uomo decide di addentrarsi in luoghi selvaggi, remoti ed inesplorati, dove è conscio dei molti animali selvaggi presenti e quindi, questo, possa correre consapevolmente dei rischi oggettivi, ma questa si chiama “avventura; diverso è il Trentino, territorio peraltro a forte vocazione turistica e di richiamo al movimento, dove l’orso è stato reinserito nel 1999 (poi vorrei capire con che obbiettivi e con quali benefici per l’ecosistema) ed incontrollatamente poi lasciato proliferare, quasi triplicando il numero previsto in origine”.
Mi ha molto colpito, nel museo etnografico di Stenico (TN), a due passi proprio dalla Val di Sole in cui è avenuto il recente incidente tra uomo e orso, una fotografia d’epoca, risalente al 1910 in cui due cacciatori siedono fieri affianco ad un orso morto. Questa immagine, più evocativa di qualunque risposta si possa dare al commento precedente, ci dice, innanzitutto, che l’orso in quel territorio è sempre stato presente, da ben prima che venisse reintrodotto di recente e, in secondo luogo, che c’è stata una massiccia eliminazione da parte dell’uomo degli individui che ne componevano le popolazioni locali prima che si riducesse a poche decine di individui.

Inoltre, una delle prime cose che imparano i miei studenti al corso Biologia della Conservazione è che, in media, una popolazione di qualunque specie con meno di 100 individui in un territorio è a un passo dal baratro di quello che viene definito “vortice dell’estinzione”. In altre parole, se contiamo meno di 100 animali o piante di una determinata specie, questa rischia in pochi anni di estinguersi. Quanti orsi si contano sulle Alpi italiane oggi? 100-120! Quindi l’eliminazione o la cattura anche di pochi individui, ritenuti “problematici” forse solo perché meno schivi o più infastiditi in certe occasioni, rischia di far estinguere l’intera specie a livello locale. È anche vero che paesi limitrofi, come la Slovenia, contano una popolazione di oltre 1.000 individui (quindi ben sopra la soglia di estinzione e, comunque, con una gestione venatiora molto discutibile), ma non esistono corridoi ecologici che permettano a questi individui di espandere il loro areale di distribuzione verso l’Italia e questo rende la popolazione italiana e qualla slovena pressoché a sé stanti. Anche sulla necessaria connettività ecologica, per evitare che gli animali si addensino in determinate aree e non abbiano modo di spostarsi se non attraversando aree antropizzate, bisognerebbe lavorare. E soprattuto trovare altre zone da sottrarre all’invadenza umana, da proteggere integralmente per riconnettere parchi e riserve.
Poi il lettore prosegue scrivendomi che: “A me risulta che i Mountain Runner percorrano i propri itinerari pressoché sui medesimi tracciati degli escursionisti, cioè sentieri; non capisco, quindi, che differenza statistica di pericolo ci sia tra chi cammina e chi corre in montagna a livello di impatto sulla fauna; sul fatto che, questi ultimi, si abbiglino in maniera diversa dai camminatori, non so davvero da quale fonte o esperienza diretta abia attinto. Dalle Sue parole si evince un certo fastidio verso i MR come se, per il solo fatto di correre (forse in discesa oppure in pianura, sicuramente non in salita) fossero elementi di disturbo e di provocazione per tutti gli altri frequentatori della montagna, orsi inclusi; probabilmente ha avuto esperienze diverse dalle mie dove invece, tutti i suddetti, hanno manifestato entusiasmo, solidarietà e complimenti per i MR. Il povero Andrea avrebbe infine avuto sorte identica anche se non stesse correndo, mi creda; l’incontro con l’orso, ancorché molto remoto (ma sempre meno, se il numero aumenta), resta comunque un’incognita a livello di esito”.
Purtroppo, non è così. L’uomo pensa di poter correre, urlare, pedalare, fare baldoria, sport, etc. ovunque, persino lungo i sentieri escursionistici dei parchi nazionali. Non ho nulla contro la corsa e piace anche a me la bicicletta, ma dobbiamo lasciare alla Natura quel poco che le resta e anzi restituirle molto di ciò che abbiamo preso. Se corro nel parco di Yellowstone o vado in bici al Kruger so già che rischio la vita perché ci sono altri esseri viventi, che hanno il sacrosanto diritto di vivere in quegli stessi luoghi, che potrebbero risultarne infastiditi. In aree d’Europa dove resta quel minimo di vita selvatica dovrebbe essere lo stesso. Non è possibile prevedere con esattezza il futuro, ma i pericoli e i comportamenti a rischio sì e penso che il povero Andrea non avrebbe avuto sorte identica se non avesse percorso quelle aree correndo. Il fatto che “l’incontro con l’orso, ancorché molto remoto, resta comunque un’incognita a livello di esito” è completamente falso, perché – dati alla mano – sappiamo che questo è l’unico caso di decesso causato da un orso negli ultimi forse 4-5 secoli documentati in Italia.
Il rischio di esito infausto è amplificato migliaia di volte dal nostro scorretto e ultra-antropocentrico (direi anche, spiacevolmente arrogante) rapporto che abbiamo con la Natura. Si rischia infinitamente di più di essere ammazzato da un’auto o da una fuga di gas nel proprio paese che da un animale selvatico.

Le indicazioni del Parco Nazionale di Yellowstone (che ha anch’esso prioprio l’orso come simbolo) sono chiare: “[Se incontri un orso sul sentiero], presta attenzione a questo avvertimento e indietreggia lentamente. Non cadere a terra e “fare il morto”. Non correre, non urlare o fare movimenti bruschi: non vuoi spaventare l’orso. La corsa può innescare una risposta di inseguimento nell’orso e non puoi correre più veloce di un orso”.
Il sito BearWise spiega chiaramente che “i ciclisti e i runner che si muovono velocemente e silenzionsamente possono facilmente sorprendere un orso. Vanno assolutamente evitati gli auricolari e bisogna essere sempre consapevoli di ciò che ci circonda e farsi percepire dagli animali”.

“In Austria, Svizzera, Germania, Francia, l’orso di fatto non mi sembra presente; sono forse questi territori montani meno ‘naturali’ e biologicamente completi dei nostri?” – mi chiede ancora il lettore.
La risposta a questa domanda è ovvia: assolutamente sì. Questi paesi hanno una vergognosa gestione della Natura (l’hanno fondamentalmente eliminata e addomesticata a piacimento) e delle specie selvatiche, una gestione antropocentrica e tipicamente coloniale. Certamente in questi paesi il livello di naturalità è migliaia di volte inferiore (e sono palesemente biologicamente meno complessi) di altri come l’Italia che a fatica, tra politici ignoranti, bracconieri, assalitori della domenica, etc., tentano di conservare gli ultimi scampoli di Natura e vita selvatica. Porre questa domanda significa non vedere la lapalissiana differenza e l’ovvia discrepanza nelle politiche di conservazione con questi stati.
Non contento, il lettore incalza: “Se l’orso ha occupato prima di noi il territorio e noi lo abbiamo (erroneamente) estinto, tuttavia la sua reintroduzione non può ignorare certe regole di convivenza e di pericolosità, anche se poi, come dice, la percentuale di incontro fosse di una su un milione. Perché dovrei rinunciare a percorrere i sentieri della mia valle (correndo o anche solo camminando o pedalando) poiché posso correre il rischio – sempre maggiore – di incontrare l’orso (attualmente ne sono censiti 4)?”
Il problema è che si dovrebbe ribaltare la domanda che mi pone: Perché gli orsi e gli altri animali selvatici dovrebbero rinunciare a vivere, come hanno sempre fatto prima che la nostra specie li sterminasse in quella valle (che non è assolutamente sua come scrive, ma anche di altre milioni di specie) per permettergli di correre o pedalare poiché sussiste un rischio di spaventare la fauna selvatica e che questa reagisca di conseguenza? Come dice, attualmente sono censiti 4 orsi in quella zona, a fronte di quanti esseri umani, 400 mila? Mi sembra evidente la sproporzione.
Nel castello del Buonconsiglio di Trento vengono ricordati al visitatore i luoghi in cui Cesare Battisti, geografo, giornalista e politico italiano venne condannato per tradimento e ucciso dalle Milizie austriache per essere stato in contrasto con le politiche austro-ungariche soprattutto dall’inizio della Prima Guerra Mondiale. Nelle celle del castello, affianco al luogo in cui fu impiccato per aver difeso un’idea di pace e libertà ben diversa da quella che propugnavano oltralpe c’è un memoriale che ricorda il sacrificio di quell’uomo coraggioso.

Insieme ad altri eroi del risorgimento nazionale, l’esempio di Cesare Battisti, proprio in quella Trento che doveva scegliere da quale parte della storia stare, dovrebbe tenere sempre viva nella nostra memoria che non sempre le idee dei governanti sono giuste, non sempre sono degne di riverenza e che per difendere un ideale più alto di rispetto della vita, ma che sia quella di tutti, uomini e non, a volte è necessaria la “disobbedienza civile”, invocata non a caso dall’autore di “Camminare” Henry David Thoreau che scriveva: “Vorrei dire qualcosa a proposito della Natura, della libertà assoluta e della selvatichezza, in contrasto con una libertà e una cultura puramente civili — considerando l’uomo come un abitante, o una parte integrante della Natura, e non come un membro della società. Vorrei fare, e per questo sarò abbastanza chiaro, un discorso estremo; anche perché vi sono già fin troppi campioni di civiltà: il ministro, la commissione scolastica e poi ciascuno di voi potrà sempre occuparsi di questo genere di cose. […] Ai nostri giorni quasi ogni cosiddetto miglioramento a cui l’uomo possa por mano, come la costruzione di case e l’abbattimento di foreste e alberi secolari, perverte in modo irrimediabile il paesaggio e lo rende sempre più addomesticato e banale. […] Ecco dunque questa vasta, selvaggia, vacillante madre di noi tutti, la Natura, che vive in tutto quello che c’è attorno, che come il leopardo mostra tanta bellezza e tanto affetto per i suoi figli; eppure noi siamo svezzati così presto dal suo seno per essere lasciati alla società, a quella cultura che è esclusivamente un’interazione dell’uomo sull’uomo — una sorta di riproduzione incestuosa in grado di procreare al massimo una nobiltà all’inglese, una civiltà destinata ad avere una rapida estinzione. […] Sono allarmato quando capita che ho camminato un paio di chilometri nei boschi solo con il corpo, senza arrivarci anche con lo spirito”.
Già centocinquant’anni fa, Thoreau aveva capito dove sta il problema del nostro sentirci unici e soli su questa Terra. Se quell’animale (la cui radice del termine viene da “anima”, dal latino “affine” e dal greco “soffio di vento”), quell’orsa, nonostante sia scampata a quello che sarebbe stato un ingiusto proiettile, ma che passerà, comunque, il resto della sua esistenza in un’ingiusta gabbia (che è un po’ un altro modo di morire) ha ancora qualcosa da insegnarci certamente lo fa con le parole di Thoreau: “C’è un godimento vivo in una vita semplicemente animale. […] Tutte le cose buone sono selvagge e libere”.
Roberto Cazzolla Gatti
Biologo ambientale ed evolutivo, PhD
Professore di Biologia della Conservazione
Università di Bologna
*Pubblicato su Villaggio Globale del 28 aprile 2023