Il senso dell’esistenza umana potrebbe avere finalità evolutive, se la smetteremo di distruggere Gaia
Con due articoli scientifici in astrobiologia, pubblicati nel 2017 (Adaptation, evolution and reproduction of Gaia by the means of our species. Theoretical biology forum, 110:1-2, 25-45) e nel 2018 (Is Gaia alive? The future of a symbiotic planet. Futures, 104, 91-99), ho cercato di mantenere la porta aperta al dibattito fondamentale su come il nostro pianeta funzioni e mantenga la sua stabilità. Gli esperimenti mentali proposti nei due papers miravano a tenere in vita e stimolare la discussione sulla teoria di Gaia e le sue implicazioni per la nostra specie e per il futuro dell’intera biosfera. L’idea ha avuto un notevole riscontro mediatico, soprattutto negli USA (https://motherboard.vice.com/en_us/article/8xp3ea/the-plan-to-seed-life-on-alien-planets), dato avvio a una riflessione sul nome scientifico da assegnare al pianeta Terra in quanto essere vivente (il binomio latino più gettonato è stato Imperium vitea-planeta) e, addirittura, ispirato un movimento spirituale-religioso mondiale in Australia (https://independentaustralia.net/environment/environment-display/the-empire-of-life-needs-a-proper-name,11943).
Ovviamente, non mi sento di giudicare le iniziative connesse alla mia teoria scientifica, che vanno al di là dello studio dei fenomeni biologici universali, ma ciò che proposi, con un ragionamento logico-induttivo e argomenti analogici fu che, senza invocare la teleologia, quindi senza alcuna previsione o pianificazione, un pianeta gaiano può essere considerato un sistema simbiotico in co-evoluzione analogo a un corpo multicellulare. Infatti, le cellule coevolvono con un corpo così come gli individui e le specie coevolvono con Gaia. In questo modo, ho suggerito che Gaia possa essere effettivamente considerata soggetta a selezione naturale e affrontare stati di esclusione-competizione-convivenza a seconda della “forma fisica” (fitness) del suo biota rispetto a quelli delle altre biosfere riproduttive.

Lo scienziato russo Valdimir Vernadsky, nel 1945, ipotizzo che la vita esistesse nell’universo ancor prima di iniziare a prosperare sulla Terra seguendo le leggi universali dell’evoluzione per giungere alla Noosfera (in cui il potere della mente dell’uomo diventa la più grande forza geologica, oggi nota come epoca dell’Antropocene) e avviò una speculazione sulla possibile origine extraterrestre della vita (panspermia). L’ipotesi più corroborata sulla panspermia, fino ad ora, è che alcuni meteoriti potrebbero aver portato esseri viventi primordiali e microscopici sul nostro pianeta dallo spazio profondo. Nei miei studi, ho mostrato come anche gli esseri umani possano, allo stesso modo ma consapevolmente, agire come agenti della panspermia, consentendo a Gaia di riprodursi.
Questa capacità riproduttiva, insieme all’identificazione del suo ambiente esterno e dello scambio energetico a cui essa partecipa, può conferire definitivamente a Gaia lo status di sistema vivente. Da questa nuova evidenza scientifica deriverebbero, dunque, profonde implicazioni. Innanzitutto, sembra ovvio che solo se un sistema gaiano sano, differenziato e omeoretico, sia in grado di evolversi fino al suo stadio riproduttivo. Infatti, se la biodiversità e gli ecosistemi non si conservassero intatti fino alla riproduzione di un sistema gaiano, la propagazione del genoma planetario non potrebbe procedere.
La maggior parte degli scienziati concorda sul fatto che le attività umane durante l’Antropocene abbiano accelerato il tasso di estinzione delle specie che sta provocando la sesta principale estinzione di massa sulla Terra. L’attuale tasso di estinzione rimane ancora imprecisato, ma oscilla tra 100 e 1.000 volte il tasso di base (ovvero il livello senza l’intervento umano). Questo perdita di massa della biodiversità è in corso a causa degli impatti antropogenici sugli ecosistemi, inclusi la sovrappopolazione, l’inquinamento, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali (mediante, ad esempio, deforestazione e overfishing), emissioni di gas serra (GHG), ecc. Alcuni studi hanno già avanzato l’idea che il numero elevato di specie animali e vegetali che vivevano sulla Terra prima dell’inizio dell’Antropocene e che si sono estinti negli ultimi secoli stia minacciando anche l’esistenza umana stessa. Da queste considerazioni si comprende chiaramente come l’Homo sapiens sapiens sia una specie importante, in grado di influenzare persino aspetti geologici di un’intera epoca storica, ma non quella più importante per Gaia. Gli esseri umani potrebbero agire come cellule germinali che trasportano e diffondono il genoma planetario su altri pianeti alieni, ma è improbabile che gli uomini si possano riprodurre e sopravvivere su un altro sistema gaiano una volta disconnessi da Gaia sulla Terra.
Come uno spermatozoo, che perde il suo flagello e acrosoma mentre entra nell’uovo di un altro organismo, cambiando quindi la sua identità, un essere umano può essere considerato semplicemente un portatore di informazioni genetiche del suo corpo di appartenenza (ovvero quello di Gaia) e non di se stesso: un mezzo di più che un obiettivo. Molte altre specie sarebbero potute evolversi ed essere in grado di agire come unità di propagazione germinale su altri pianeti gaiani alieni. Pertanto, sostenevo in quegli studi di astrobiologia, la nostra specie potrebbe agire come cellula riproduttrice, trasferendo il genoma di Gaia e permettendone la sua riproduzione oppure, se continuerà a crescere, a distruggere la vita incondizionatamente e a consumare risorse fondamentali per la sopravvivenza delle altre componenti della biosfera, agirà come una cellula cancerosa, danneggiando Gaia con una malattia sulle sue cellule somatiche (le altre specie) e organi (gli ecosistemi) che, successivamente, influenzerà anche le sue stesse cellule germinali (gli esseri umani), impedendo alla vita di Gaia ogni possibilità di riproduzione nell’universo su pianeti alieni (ad eccezione di una diffusione accidentale a seguito di impatti di asteroidi).
Lo scopo della vita, che è quello della sua biosfera e, quindi, anche di un intero sistema gaiano, non è previsto né pianificato, ma è semplicemente la propagazione di se stesso. Questo obiettivo può essere raggiunto solo se si assume che il significato essenziale della vita è consentirne la continuazione attraverso la diversità.
La nostra specie, come risultato di miliardi di anni di evoluzione e di differenziazione simbiotica all’interno di Gaia, ha la possibilità e il privilegio di consentirne alla vita la continuazione e l’evoluzione nell’Universo. Supponendo di essere in grado di permettere a Gaia di riprodursi, la nostra specie sarebbe destinataria, quindi, di una sorta di obbligo bioetico che richiederebbe due condizioni: la prima è che dobbiamo mantenere la biodiversità e gli ecosistemi all’interno di Gaia vivi e sani e continuare a studiarli e proteggerli perché sono le componenti essenziali e portanti del corpo di Gaia; la seconda è che dovremmo impegnarci nella ricerca di altri pianeti gaiani nell’universo e investire nei progressi tecnologici per trasferire il genoma di Gaia su altri siti riproduttivi alieni potenzialmente idonei (disabitati e/o potenzialmente abitati).
Per raggiungere la prima condizione è fondamentale arrestare la perdita di specie che è aumentata drammaticamente durante l’Antropocene e l’insostenibile distruzione degli ecosistemi. Allo stesso tempo, è essenziale mitigare e consentire l’adattamento della nostra e delle altre specie (cioè della biosfera) ai cambiamenti globali attuali e futuri, così come accaduto nelle passate ere geologiche.
Poiché il nostro pianeta è a un terzo della sua vita (1,75-3,25 miliardi di anni restano prima che il sole si scaldi tanto da ostacolare la vita sulla Terra) e non siamo ancora in grado di trasferire le informazioni genetiche di Gaia su altri potenziali pianeti alieni, c’è un altro motivo per cui dobbiamo permettere il più possibile a Gaia di vivere: prenderci abbastanza tempo per sviluppare i mezzi tecnologici in grado di farla riprodurre nell’Universo.
Secondo le attuali conoscenze, l’Universo è solo circa 3 volte più vecchio della Terra. Poiché ci volle del tempo dopo la sua formazione prima che la vita emergesse, e non è chiaro quanto velocemente la vita potrebbe essersi diffusa da un pianeta all’altro ed essersi evoluta (poiché la maggior parte delle riproduzioni planetarie coinvolgerebbe diversi sistemi solari), non sappiamo quanti eventi di riproduzione e possibilità di selezione naturale sono stati e saranno possibili nell’Universo. A questo proposito, l’evoluzione di una civiltà altamente tecnologica potrebbe aiutare. Nel 1960, Tommy Gold suggerì la teoria della “spazzatura cosmica” come origine della “panspermia accidentale” (ovvero che anche se un astronauta arrivasse su un pianeta alieno, i microbi che vivono al suo interno avrebbero molte più possibilità di colonizzare e sopravvivere su quel pianeta rispetto a lui). Francis Crick e Leslie Orgel nel 1973 hanno approfondito questo aspetto in un articolo pubblicato sulla rivista Icarus e in un popolare libro di Crick del 1981, intitolato «La vita stessa», si suggeriva il deliberato tentativo di popolare l’Universo con la vita da parte di una società ad alta tecnologia, in grado di lanciare numerosi razzi pieni di colture microbiche su pianeti alieni. Questo scenario può accelerare le cose e quindi sopperire, almeno in parte, alla “mancanza di tempo” dovuta all’età di Gaia.
Per consentire la riproduzione di Gaia, quini, ho proposto di avviare un programma di ricerca specifico suddiviso in due fasi. La prima è cercare il mix più adatto, diversificato e geneticamente rappresentativo di microrganismi viventi in Gaia in grado di sopravvivere, evolversi e riprodursi su pianeti alieni (come batteri metanogeni, estremofili, fototrofici e chemotrofici, ecc.) che può essere trasferito in quelle che ho chiamato biofore (dal greco: βίος, “vita”, e φορά, “portare”, cioè capsule trasportatrici di vita). La seconda è investire nello sviluppo di tecnologie in grado di trasferire le “biofore” su lunghe distanze. Questo trasferimento può essere diretto (se gli esseri umani fossero in grado di trasportare direttamente le biofore sui pianeti alieni o indiretto (se la diffusione avvenisse mediante dispositivi tecnologici, in una sorta di estensione artificiale degli esseri umani), passivo (se la dispersione venisse effettuata senza conoscere con esattezza i pianeti riceventi, come i semi delle piante dispersi dal vento) o attivo (se le biofore venissero inviate su pianeti adatti rilevati in precedenza).
Secondo alcune stime, esisterebbero almeno mezzo milione di pianeti gaiani nella Via Lattea. Ciò significa che ci sono molti potenziali “compagni” per Gaia, sparsi ovunque nell’universo. Inoltre, milioni di pianeti disabitati potrebbero essere adatti alla riproduzione di Gaia (ad esempio, qualche anno fa, alcuni ricercatori hanno scoperti tre pianeti, simili alla Terra, in orbita intorno a una stella nana ultra-fredda, a 40 anni luce di distanza, in un altro sistema stellare).
Esistono posizioni contrastanti secondo cui l’idea di Paul Crutzen di Antropocene è più associabile al contesto scientifico del dibattito, poiché assegna all’umanità il ruolo di forza geologica solo durante gli ultimi due secoli, mentre James Lovelock sosterrebbe che gli uomini siano ontologicamente i distruttori della Terra. Sebbene questo modello di pensiero sia basato sull’incomprensione delle idee originali di Lovelock, che raffigurano ingiustamente il padre dell’Ipotesi di Gaia “contro l’umanità”, nella mia teoria ho mostrato che la specie umana ha, invece, la possibilità di cambiare la sua fama “antropocenica” distruttiva, direzionandola verso una “reputazione” di conservazione della vita e un ruolo riproduttivo per Gaia. Tuttavia, è in Vernadsky e nelle sue idee di Biosfera e Noösfera, che troviamo un futuro di creatività piuttosto che di autodistruzione. Secondo Vernadsky, gli esseri umani avrebbero dovuto sopportare nuove responsabilità come conseguenza naturale della progresso scientifico, a causa della direzione immanente dei processi biogeochimici verso l’avvento della Noosfera. L’attività umana come fenomeno planetario, dunque, raggiungerebbe inevitabilmente ciò che Vernadsky proponeva con il concetto di Noosfera: una sorta di “ultimo e più grande sviluppo morfologico dell’evoluzione della materia vivente”.
Il pianeta simbiotico invocato da Margulis, costituito da processi di co-evoluzione, trasferendo il suo genoma planetario per mezzo delle biofore consegnate dalle sue cellule germinali umane, potrebbe iniziare la riproduzione delle “infinite forme bellissime”, con cui condividiamo la nostra vita, in altri angoli di Universo. In questo modo, la Noosfera, considerata come una forma di “conoscenza scientifica e la sua applicazione tecnologica” può essere vista come un fenomeno evolutivo e l’emergere di un “uomo tecnologico” come il risultato paleontologico dell’evoluzione stessa.
Alla fine, la nostra specie potrebbe trovare un significato e un ruolo nell’universo evolutivo solo se saremo in grado di proteggere la vita all’interno di Gaia e consentirle di riprodursi al di fuori del suo corpo.
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.
Biologo ambientale ed evolutivo
Professore associato, Tomsk State University (Russia)
e Politecnico di Rouen (Fancia)
*Pubblicato su Villaggio Globale – Trimestrale di Ecologia N. 94 – Giugno 2021