Il consumo di prodotti agricoli tropicali minaccia la biodiversità
Sempre più evidenze mostrano il pesante impatto del mercato agricolo tropicale sulla Natura
In una recente revisione della letteratura scientifica dal titolo “Agricultural expansion and its impacts on tropical nature”, William F. Laurance e colleghi (Trends in Ecology & Evolution February 2014, Vol. 29, No. 2) si sono chiesti: «La popolazione umana dovrebbe raggiungere 11 miliardi durante questo secolo, con un incremento maggiore nei paesi tropicali in via di sviluppo. Questa crescita, di concerto con l’aumento del consumo pro-capite, richiederà forti aumenti di cibo e produzione di biocarburanti. Come questi mega-trend influenzeranno gli ecosistemi tropicali terrestri e acquatici e la loro biodiversità?». Il gruppo di scienziati ha constatato che sono previsti «una grande espansione e l’intensificazione dell’agricoltura tropicale, soprattutto in Africa Sub-Sahariana e in Sud America; una continua rapida perdita e l’alterazione delle foreste tropicali primarie, delle praterie, e degli ambienti semi-aridi; un ruolo fondamentale per la nuove strade nel determinare l’estensione territoriale dell’agricoltura; e l’intensificazione dei conflitti tra la produzione alimentare e la conservazione della natura».
Quest’ampia review delle ricerche sugli impatti dell’espansione agricola e del mercato internazionale sull’ambiente segue le orme di un precedente articolo pubblicato su Nature (2012, Nature, 486(7401), 109-112) dal titolo “International trade drives biodiversity threats in developing nations”. In questo studio M. Lenzen e colleghi (tra i quali anche il prof. L. Lobefaro dell’Università degli Studi di Bari), hanno evidenziato come: « Le attività umane stiano causando la sesta importante estinzione di massa della Terra, con una perdita elevata delle riserve mondiali di diversità biologica, a un tasso da 100 a 1000 volte superiore rispetto ai livelli pre-umani. Oggi, in un mondo sempre più globalizzato, catene commerciali internazionali accelerano il degrado degli habitat lontani dal luogo di consumo dei prodotti». Questo studio ha mostrato che una significativo numero di specie è minacciato dal commercio internazionale, attraverso percorsi complessi, e che, in particolare, i consumatori nei Paesi sviluppati causano minacce alla specie attraverso la loro domanda di merci che sono in ultima analisi prodotte nei paesi in via di sviluppo.
«Escludendo le specie invasive, abbiamo scoperto – hanno dichiarato gli scienziati – che il 30% delle specie minacce è a rischio a causa del commercio internazionale. In molti paesi sviluppati, il consumo di importazione di caffè, tè, zucchero, tessile, prodotti ittici e altri manufatti provoca un’impronta ecologica sulla biodiversità, che è più grande all’estero che in patria. I nostri risultati sottolineano l’importanza di esaminare la perdita di biodiversità come un fenomeno sistemico globale».
Insomma, l’appetito insaziabile del mondo sviluppato per le materie prime, come tè, caffè e olio di palma provoca un terzo delle minacce alla biodiversità.
Non sorprende che le abitudini di consumo degli Stati Uniti rappresentano la maggior parte delle minacce, seguiti da Giappone, Germania e Francia. I paesi in via di sviluppo custodiscono spesso una ricca biodiversità e le loro economie sono basate sulle materie prime, così da essere esportatori netti di minacce per le specie.
In una recente ricerca condotta dal sottoscritto (Cazzolla Gatti, R. (2016). Trends in human development and environmental protection. International Journal of Environmental Studies, 73(2), 268-276), sostiene che, contrariamente a quanto molti economisti suggeriscono, lo sviluppo non è sempre un bene per la Natura. Che la biodiversità e gli ecosistemi siano fondamentali per sostenere l’umanità e la vita sulla Terra è una fatto ormai accertato, ma nel corso degli ultimi secoli questi sono sottoposti a forti pressioni a causa dell’eccessivo sfruttamento. Allo stesso tempo la protezione ambientale sta ricevendo maggior considerazione a causa della miglior comprensione delle interconnessioni tra il benessere umano e la salute degli ecosistemi.
Il problema è che, anche se la volontà di seguire uno stile di vita sostenibile nei Paesi occidentali è in aumento, molte società in via di sviluppo stanno vivendo la loro fase di crescita economica in questo momento, minacciando e sfruttando eccessivamente il loro ambiente. E questa sarà una catastrofe per l’intero Pianeta!
Questo studio mette a confronto il Living Planet Index (LPI) e l’indice di sviluppo umano (HDI), e suggerisce che le società seguono modelli comuni di sviluppo, partendo da uno stile di vita indigena verso società sottosviluppate, attraverso una fase di crescita, verso uno stato di completo sviluppo. Seguendo queste fasi comuni, ogni società sfrutta le risorse naturali locali, regionali e globali per alimentare la sua crescita economica. Se, però, i Paesi in via di sviluppo non adotteranno strategie per saltare la fase «intermedia» di sovrasfruttamento delle risorse naturali durante la loro fase di crescita, gli ecosistemi potrebbero non essere in grado di mantenere in vita la biodiversità globale, e fornire i servizi ecosistemici che sostengono l’umanità.
Il problema, come nel caso dell’olio di palma, è che le forti pressioni da parte delle lobby e di tutti i soggetti (economicamente) interessati alla questione “oli tropicali” cercano in tutti i modi di ripulire l’immagine dell’olio di palma con inganni e vere e proprie truffe, facendoci credere che il suo ampio utilizzo è un tentativo di salvaguardare la nostra salute da grassi peggiori. È tutto falso! Si usa olio di palma perché costa meno e lo si produce in luoghi dove le leggi di tutela ambientali e dei diritti umani sono carenti. Solo e soltanto per questa ragione. Ecco perché le varie associazioni di produttori (come l’AIDEPI tempo fa o l’Unione Italiana per l’Olio di Palma Sostenibile oggi) affrontano poco l’aspetto ambientale e sociale e puntano su quello salutistico. Molti gruppi interessati cercano l’effetto confusione. Sfruttano le scarse conoscenze scientifiche sulla questione nutrizionale per disorientare la gente e omettono di affrontare l’aspetto ambientale, che è certamente quello più rilevante.
Riteniamo che la zuppa di pinne di squalo possa persino essere benefica per la salute, ma non per questo siamo disposti ad accettare che gli squali vengano trucidati per riempire le ciotole degli orientali.
Sappiamo che la carne di balena è un’ottima fonte di proteine e grassi per le popolazioni indigene che vivono nell’Artico, ma non per questo siamo disposti ad accettare che viziati norvegesi o ricchi giapponesi portino all’estinzione i cetacei per gustare queste pregiate carni.
E con gli oli tropicali, invece, che distruggono migliaia di specie, centinaia di ettari di foreste come la mettiamo? Siccome gli alberi non hanno occhi che piangono a nessuno importa? Ma almeno di oranghi, rinoceronti e leopardi che in quelle foreste ci vivono a qualcuno importerà!?!
Il problema nutrizionale non è l’aspetto su cui soffermarsi perché questo è proprio quello che vogliono le aziende che fanno affari con gli oli tropicali. Se, infatti, eliminassimo del tutto gli oli di palma e cocco dai prodotti alimentari per un potenziale rischio sanitario, questi grassi resterebbero onnipresenti in saponi, detersivi, saponette, farmaci e cosmetici. Il problema ambientale non sarebbe comunque risolto. È la distruzione delle foreste, l’enorme inquinamento da trasporto verso l’Europa (quasi 11.000 km via nave o aereo) e la perdita della biodiversità tropicale, insieme alle violazioni dei diritti umani e dei popoli indigeni, che dovrebbe preoccuparci di più. Invece, se qualcosa è pericoloso per la nostra salute ci allertiamo, se invece lo è per la salute del pianeta in cui viviamo fingiamo che non ci siano problemi. Le aziende, che sono zeppe di esperti di marketing ed economisti addestrati, lo sanno bene e fanno leva sull’indifferenza della gente ai problemi ecologici.
Basta verificare quanti di coloro che, da professionisti ed esperti, si esprimono a favore dell’olio di palma non abbiano già avuto, o non hanno in corso, collaborazioni con multinazionali di prodotti alimentari, con case farmaceutiche, aziende di cosmesi, persino grossi marchi produttori di sigarette. Praticamente… tutti.
Allora qual è la soluzione a questo problema? Fateci caso: su cosa puntano maggiormente associazioni, multinazionali ed esperti coinvolti nel commercio degli oli tropicali? Sull’insensatezza e l’inefficacia del boicottaggio. Proprio perché lo temono da morire ed è questa la ragione per cui, solo adesso, stanno nascendo come funghi unioni, associazioni e gruppi a sostegno dell’olio di palma. Perché la sensibilità dell’opinione pubblica sta crescendo grazie all’informazione sul vero impatto della produzione e in molti, ora, scelgono di non acquistare prodotti che contengono oli tropicali. Il boicottaggio non solo funziona, ma è anche l’unica arma di cui disponiamo nei paesi che alimentano questo commercio per fermare la distruzione. La scusa che se, ad esempio, in Europa si smettesse di utilizzare oli tropicali le aziende acquisterebbero altri oli peggiori, oppure i produttori si rivolgerebbero ad altri mercati meno sensibili all’ambiente, non regge affatto. Primo, perché oli peggiori di quelli tropicali, da un punto di vista che combina ragioni sanitarie, sociali e ambientali, non ce ne sono. Vorrebbero farci credere che l’olio per motori diventerebbe l’ingrediente alternativo?
La seconda ragione è che, sebbene i produttori possano rivolgersi ad altri “mercati con consumatori meno sensibili”, questa non è una buona ragione per non smettere di fare qualcosa di dannoso per l’ambiente. Sarebbe come dire: non ha senso che tu faccia la raccolta differenziata tanto ci sono miliardi di persone nel mondo che non la fanno. Sarebbe come suggerire: non serve che in Europa evitiamo di acquistare legno tropicale (che anche se certificato crea sempre un danno alle foreste, sia ben chiaro!) perché tanto le aziende lo venderebbero in altre parti del mondo con “acquirenti meno attenti”.
Allora si potrebbe, ad esempio, chiedere alla Comunità Europea di vietare l’importazione e la vendita negli stati membri di prodotti che contengono oli tropicali (anche sostenibili, tanto non lo sono davvero), come si fa per sanzionare comportamenti ritenuti inaccettabili e se ci preoccupano, davvero, le nuove strategie di mercato delle aziende produttrici verso i paesi meno attenti, imponiamo l’embargo di import-export agli stati che continuano a permetterne la vendita sul proprio territorio. Sembra un’utopia, vero? Ma non è così. L’Europa, ad esempio, sta facendo esattamente questo con l’attuale e controverso embargo nei confronti della Russia. Allora, se l’influenza geopolitica americana funziona, perché non dovrebbero funzionare le pressioni dell’opinione pubblica? Con “olio di palma sostenibile” i promotori di queste campagne ingannatori lasciano intendere che possa esistere un olio tropicale prodotto senza tagliare le foreste, che ha origini conosciute e, quindi, tracciabili. Ma questa è un’illusione. Ciò che, in realtà, accade anche nel caso della produzione cosiddetta “sostenibile” è che le foreste primarie vengono tagliate e bruciate, per essere convertite in piantagioni da olio esattamente come quelle non certificate, solo che questo avviene dopo che è trascorso qualche anno dalla deforestazione illegale. Poiché nella maggior parte dei Paesi in cui si producono gli oli tropicali non esistono leggi che obblighino le autorità a redigere registri e a realizzare mappature aggiornate dei cambiamenti di uso del suolo, che possano essere utilizzati per sanzionare i tagli illegali ed evitare che un territorio inizialmente coperto da foresta possa esser trasformato in un’area agricola, è praticamente impossibile sapere se, dove ora cresce una piantagione di palma “certificata sostenibile”, solo fino a qualche anno fa non ci fosse una rigogliosa foresta.
Poiché la maggior parte dei tagli e incendi passano inosservati (considerata anche l’elevata frequenza e intensità) e considerato che, spesso, gli stessi governi favoreggiano la deforestazione, con questi sistemi di certificazione non si fa altro che dichiarare “sostenibili” piantagioni che solo fino a qualche prima sarebbero state definite illegali e insostenibili, perché ricavate a spese della foresta tropicale.
L’astuto escamotage della certificazione è che si fa passare per “olio di palma sostenibile” un prodotto che non risulta proveniente dalla conversione in piantagioni di aree sottoposte a incendi volontari o tagli solo perché gli incendi e il taglio sono avvenuti qualche anno prima della richiesta di certificazione da parte delle aziende.
Un grosso problema sta proprio in questo: il ritmo di consumo. Con la crescita della popolazione mondiale, lo sviluppo di molte economie emergenti (come Cina e India) e il conseguente aumento della domanda si ha, ovviamente, la necessità di incrementare anche l’offerta del prodotto, ovvero aumentare la produzione di oli tropicali. Un’offerta che nemmeno la produzione di olio di palma cosiddetto “sostenibile” potrebbe assicurare, perché non è possibile aumentare ulteriormente la resa delle piantagioni ad oggi esistenti ed è necessario deforestare altre aree per ricavare suoli agricoli.
In pochi decenni abbiamo già deforestato oltre il 40% delle foreste del Sud-est asiatico e secondo un rapporto dello United Nations Environment Programme (UNEP, 2007) entro il 2022 si rischia la totale scomparsa di queste foreste.
Così, semplicemente, nei prossimi anni accadrà quanto avviene già oggi, ovvero che quelle che attualmente sono zone ricoperte da foreste tropicali e torbiere verranno bruciate e deforestate per lasciar spazio alle piantagioni, che in breve tempo potrebbero essere persino certificate come “sostenibili”, tranquillizzando così l’opinione di un crescente numero di consumatori del futuro non molto lontano. Produrre olio di palma per 6 miliardi di abitanti in maniera sostenibile è pura utopia, immaginare di produrlo per 9 miliardi è una follia.
Può sembrare strano, ma l’ingrediente che, in ogni situazione, permette di salvare la Natura dalla nostra distruzione è… la sobrietà. I fautori dell’olio di palma pseudo-sostenibile fanno leva sul fatto che la resa degli oli tropicali sia di gran lunga maggiore di quella degli oli prodotti in aree temperate (come oliva, colza e girasole), ma omettono colpevolmente due aspetti importanti. Innanzitutto, nel fare queste stime di efficienza e produttività, non tengono conto di tutte le esternalità negative che spesso gli economisti vogliono trascurare, come i costi di deforestazione e preparazione della coltura, la durata limitata della piantagione (che non supera i 20 anni), il maggior consumo di fertilizzanti e pesticidi chimici, la distanza di trasporto verso il “consumatore finale” e le emissioni di gas serra derivanti, l’enorme riduzione della diversità biologica tropicale e dei relativi servizi ecosistemici, la perdita del potere d’acquisto degli oli prodotti localmente (come quelli di oliva e girasole in Italia) e le multe che deriverebbero se fossero sanzionate le violazioni dei diritti umani (sfruttamento del lavoro e della manodopera minorile, danneggiamento delle popolazioni indigene) che caratterizzano la produzione di oli tropicali.
Ma volendo ragionare come gli economisti classici al soldo dei produttori, pur trascurando queste rilevanti esternalità ed essendo “costretti a suggerire” che non si potrebbe assecondare l’intero fabbisogno di merendine e cosmetici mondiali con altri oli come ingredienti, a causa della limitata disponibilità o della maggior estensione di suoli necessari, ci sarebbe comunque una soluzione: consumare meno!
Abbiamo dimenticato che solo fino a qualche decennio fa in Europa i prodotti confezionati erano un lusso, nemmeno tanto ricercato visto che spesso si cucinavano in casa dolci e merende ben più sane, con l’impiego esclusivo di burro o olio d’oliva. In altre regioni del pianeta l’olio di colza e girasole erano ampiamente impiegati prima dell’avvento di quello di palma.
Se, ad esempio, riducessimo il consumo esagerato di prodotti confezionati e mangiassimo di tanto in tanto (come un tempo, quando non c’era abuso, ma il semplice e piuttosto raro piacere di mangiare un dolce) biscotti, ciambelle, etc. prodotti in casa con oli acquistati da aziende locali o se, nel caso di mancanza di tempo o abilità culinarie, decidessimo di acquistare meno, ma meglio (ovvero solo prodotti di aziende che usano ingredienti sani, magari biologici e oli non tropicali) dai supermercati, ad ogni modo staremmo contribuendo a migliorare la nostra salute e a salvaguardare le foreste dalla distruzione causata dagli oli tropicali, anche da quelli millantati come “sostenibili”.
Ridurre i consumi, di qualunque tipo. Chiediamoci: perché ogni volta che si profila una crisi economica i politici ci invitano ad acquistare di più? Perché a governare ci sono, ormai, le multinazionali e non più le persone elette. Così, i ripetuti inviti alla crescita infinita portano la nostra Terra ad esaurire le risorse e la biodiversità a soccombere. Rischiamo davvero di ritrovarci a vivere in un pianeta che ospita una manciata di specie commerciali a parte la nostra. Questo significherà vivere in un pianeta morto, in cui neanche l’essere umano potrà sopravvivere.
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.
Biologo ambientale ed evolutivo
Professore associato in Ecologia e Biodiversità
presso la Tomsk State University, Russia
Pubblicato su Villaggio Globale n°74 di Giugno 2016