Gli impatti dei mutamenti climatici sulla diversità biologica

Gli scienziati ne parlano da molto tempo ormai e lanciano inascoltati allarmi: il clima sta cambiano e le cause sono prevalentemente antropogeniche. I politici (e buona parte dell’opinione pubblica) per decenni han fatto orecchie da mercante. Ora, però, che gli effetti di questi mutamenti sono sotto gli occhi di tutti, nessuno può più ignorarli. Certo, le emissioni non rallentano e se pur venissero riportate ai livelli dei primi del Novecento la situazione non cambierebbe per i prossimi uno o due secoli. Almeno però si eviterebbe quell’innalzamento di oltre 2°C, rispetto all’epoca pre-industriale, ritenuto dalla maggioranza degli scienziati una sorta di livello critico. I governi industrializzati, invece, fanno poco o nulla per ridurre la produzione di CO2 e di altri gas climalteranti (GHG) e i paesi in via di sviluppo seguono le orme di chi li ha preceduti in questa infinita (e insensata) corsa commerciale-industriale verso l’autodistruzione.

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Come in una sorta d’inferno dantesco, la legge del contrappasso vuole che l’uomo sia la specie più colpita dallo stesso inquinamento da essa prodotto, così le variazioni climatiche repentine hanno già sfrattato migliaia di isolani dal Pacifico, hanno creato danni alle abitazioni e sfollati nel Sud-est asiatico, con tifoni straordinariamente potenti, hanno eliminato l’inverno in Europa, cancellato l’andamento periodico delle stagioni nelle zone temperate, etc. Ovviamente la responsabilità non è solo umana, perché fenomeni come i cicli di Milanković  ed El Niño fanno la loro parte, ma non si può dubitare del fatto che, se si riportano in atmosfera in meno di 100 anni tonnellate di combustibili fossili sepolti da oltre 70 milioni di anni, sotto forma di gas a base carbonio (CO2 e CH4 prevalentemente), l’atmosfera, e quindi l’intero pianeta, ne risulta sconvolto. La teoria di Gaia sviluppata da James Lovelock e Lynn Margulis ci insegna che la vita sulla terra è regolata dagli stessi esseri viventi che la abitano e, quindi, qualunque azione da parte di alcune specie (soprattutto se costituite da 7 miliardi di individui) può avere effetti su scala planetaria.

L’essere umano, però, non è la sola specie a subirne le conseguenze. Molte piante e animali vengono già colpiti dagli effetti di questi repentini cambiamenti di precipitazione e temperatura. Spesso le risposte fisiologiche delle specie sono difficili da monitorare, ma alcuni segnali sono già evidenti in tutto il mondo.

Una delle reazioni principali degli ecosistemi ai cambiamenti climatici è la variazione della distribuzione. Sono stati documentati spostamenti di intere comunità verso i poli e verso le cime delle montagne per fronteggiare l’innalzamento delle temperature e ampliare gli areali verso
territori un tempo proibitivi. La stessa composizione specifica degli ecosistemi sta variando. La ricchezza delle specie muta e questo influisce sulle funzioni ecosistemiche. Le specie più tolleranti diventano invasive e quelle adattabili ai climi secchi e agli incendi soppiantano gli individui preesistenti. Ad esempio, le piante con metabolismo (ovvero una via di assimilazione dell’anidride carbonica) noto come C3 (prevalentemente alberi) stanno soppiantando le specie che invece usano un metabolismo C4 (il 3% di tutte le specie vegetali, prevalentemente cespugliose o erbacee), proprio a causa delle variazioni di temperatura, precipitazioni e CO2 atmosferica. Anche la struttura degli ecosistemi sta mutando velocemente in risposta alle variazioni del clima. Il ciclo dei nutrienti e della defoliazione autunnale delle piante decidue, così come l’aumento della respirazione del suolo con conseguente perdita di carbonio, stanno provocando cambiamenti della produttività primaria lorda (o GPP), che è un indicatore fondamentale dello stato di salute di un ambiente. La stessa struttura trofica di molti ecosistemi è stata alterata: le popolazioni di erbivori mostrano dinamiche con cicli e areali di distribuzione differenti rispetto al passato.

I modelli di successione (come ad esempio, i cambiamenti ecologici che avvengono in seguito a un incendio) e la fenologia (ovvero la periodicità degli eventi biologici) di molte specie è in allarmante variazione. Molte piante gemmano in anticipo, mentre la caduta fogliare viene ritardata. Persino le relazioni tra specie ospite e patogeni sono sotto osservazione perché evidenziano squilibri mai riscontrati sino ad ora.

Scendendo di un livello e passando ad analizzare gli effetti su alcuni specifici biomi vi sono numerose evidenze scientifiche che mostrano come le praterie e le savane, insieme alle barriere coralline, siano tra gli ecosistemi più a rischio. Gli alberi si espandono nelle praterie e sostituiscono le piante erbacee, gli incendi non seguono più andamenti stagionali e gli erbivori tipici di questi ambienti si spostano verso nord o in altro, verso le cime dei rilievi montuosi.

Le foreste stanno mostrando un moderato e atteso aumento di produttività (a causa della maggior disponibilità di anidride carbonica per la fotosintesi in atmosfera), sebbene questo sia limitato dalla siccità, dagli incendi e dall’aumentato numero di parassiti. In un recente studio condotto in Africa tropicale si è riscontrato, ad esempio, come la crescita della biomassa arborea (fertilizzazione) si sia arrestata nonostante l’incremento di CO2, forse proprio a causa delle minori, in quantità e frequenza, precipitazioni locali. Il movimento verso i poli e le montagne sta causando la riduzione della vegetazione della tundra, cheviene invasa dalle specie arboree della taiga e la diminuzione della vegetazione alpina che, raggiunta la vetta, non trova territori disponibili ove migrare. Inoltre, le specie decidue stanno prendendo il sopravvento su quelle sempreverdi (il cui metabolismo è ridotto dall’incremento di anidride carbonica) in molte comunità forestali e in particolare in quelle temporanee, sempre più frequenti a causa del taglio commerciale e delle dinamiche successionali alterate dall’innalzamento della temperatura e dalla riduzione delle precipitazioni.

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L’artico e la tundra sono altri due biomi fortemente interessati dai mutamenti climatici, poiché la migrazione sempre più verso nord della taiga e la perdita di tundra altera non solo la composizione vegetale, ma anche le risorse disponibili per gli erbivori (come renne, cervi e alci) e, di conseguenza, il numero di prede disponibili per i carnivori.

Ad alto rischio sono anche le specie di alta montagna poiché, impossibilitate a ridistribuirsi a maggiori altitudini, riducono il proprio areale (effetto cono: più ci si sposta verso il vertice e minore è la superficie disponibile) sino a correre il rischio di estinzione. Inoltre, lo scioglimento dei ghiacciai sta creando nuovi habitat disponibili, mai stati liberi sino ad ora. Questo incrementa la competizione interspecifica per lo spazio e le risorse.

In ambiente acquatico, oltre alle barriere coralline, i cui scheletri calcarei si sbiancano con la fuoriuscita delle alghe simbiotiche (zooxantelle) dai polipi dei coralli che le ospitano a causa dell’innalzamento della temperatura, e oltre alle specie pelagiche che migrano e invadono nuove aree (il Mar Mediterraneo ospita ormai popolazioni stabili immigrate dal Mar Rosso), anche le acque interne sono sottoposte a stress climatico. Le torbiere boreali sono tra le aree più a rischio poiché dipendono da condizioni fisico-chimiche particolari e rischiano di consegnare all’atmosfera un carico enorme di metano in esse custodito da millenni.

I fiumi, a causa della variazione della copertura nevosa (nelle aree boreali) e dell’alterazione dei regimi idrici (variazioni della piovosità) mostrano, quasi in tutto il pianeta, un aumento della produttività primaria netta, con la conseguente diminuzione dell’ossigeno disciolto in acqua e la successiva moria o migrazione (spesso si tratta di vere e proprie invasioni in altri bacini) di pesci a causa delle condizioni anossiche.

Le singole specie poi, variando gli areali di distribuzione, modificano anche i centri di dispersione e le abbondanze di individui. Quelle specialistiche e con areali ridotti ricevono un’attenzione particolare da parte degli ecologi poiché rischiano più di quelle generaliste.

Gli eventi estremi (come le bombe d’acqua o i periodi di siccità prolungati) variano la competizione tra i gruppi funzionali di specie, i modelli di dispersione, la quantità di specie pioniere negli habitat, le patologie da stress, etc.

Sono ormai stati riportati centinaia di casi di alterazioni della fenologia della gemmazione e fioritura delle piante tali da non corrispondere al periodo di spupamento degli insetti impollinatori e alle migrazioni degli uccelli, che causano l’impossibilità di trasporto del polline tra un fiore e l’altro nelle specie zoocore (ovvero in quelle piante che si affidano agli animali per la riproduzione). Questo fenomeno, oltre a problemi ecologici, è fonte di notevole preoccupazione in agricoltura dove molte coltivazioni dipendono proprio dall’esatta coincidenza tra la fioritura e l’arrivo degli impollinatori.

Molti animali ectotermi (che regolano la temperatura basale attraverso quella ambientale e non col metabolismo, come ad esempio fanno i mammiferi), come i rettili il cui sesso dipende dalla temperatura delle uova deposte al suolo, mostrano alterazioni del tasso di fecondità e della sex-ratio (la distribuzione tra i sessi nella specie).

I mutamenti climatici stanno poi influenzando anche la frammentazione degli ecosistemi e questo causa una perdita di diversità genetica delle popolazioni che vengono confinate in areali sempre più ridotti.

Di recente, inoltre, si sta puntando sempre più l’attenzione verso un’ulteriore effetto dei cambiamenti del clima sulle specie. Infatti, l’alterazione non è soltanto unidirezionale, cioè dal clima verso le specie, ma bidirezionale: le stesse specie possono incrementare (feedback positivi) le conseguenze dei mutamenti climatici. Ad esempio, la respirazione del suolo viene modificata dalle stesse specie che vivono in esso, incrementando così il rilascio di metano e anidride carbonica che, a sua volta, aumenta le emissioni di gas climalteranti (GHG). Altro caso sotto osservazione è l’aumento dello scioglimento del permafrost dovuto all’espansione di muschi e licheni nei territori liberati dal ghiaccio, ma il più noto di questi effetti di feedback tra le specie e il clima è certamente quello dell’albedo, cioè la frazione di luce che viene riflessa (il potere riflettente) di una superficie. Le superfici bianche riflettono maggiormente la luce e quindi assorbono meno calore. Con lo scioglimento dei ghiacci ai poli e l’avanzamento della vegetazione sempreverde della tundra nell’Artico, la superficie terrestre s’inscurisce e aumenta pertanto la capacità di assorbimento della luce e l’ulteriore incremento della temperature.

Tutto ciò dimostra come clima, atmosfera e specie viventi siano profondamente integrate e che qualunque alterazione degli equilibri possa avere effetti imprevedibili (il classico “Effetto farfalla” di Lorenz). Il problema non sta tanto nel cambiamento di per sé, poiché la Terra in 4,5 miliardi di anni di vita ha subito enormi sconvolgimenti climatici e geologici. Il nodo gordiano è la velocità con cui questi cambiamenti climatici stanno avvenendo. Sino ad oggi, infatti, le specie hanno avuto il tempo (evolutivo) di adattarsi alle lente variazioni fisico-chimiche avvenute sul pianeta (e a loro volta le hanno rese più moderate con retroazioni negative – cfr. Gaia). Oggi però assistiamo a cambiamenti repentini e radicali che si manifestano nell’arco di pochi decenni, esattamente dal tempo in cui l’uomo ha iniziato la sua rivoluzione industriale.

Quante e quali specie sapranno adattarsi a questa improvvisa modifica dei propri ecosistemi?

Forse è proprio questa la domanda del Millennio, perché da essa dipende anche la sopravvivenza stessa della nostra specie.

Roberto Cazzolla Gatti,

Ph.D., Biologo ambientale ed evolutivo

Associate professor, Tomsk State University, Russia

Pubblicato sul n. 73 (Marzo 2016) di Villaggio Globale