Tanti dubbi sul progetto Itea-Sofitner a Gioia del Colle (BA)
Con DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA REGIONALE 27 giugno 2014, n. 1321 la Regione Puglia ha finanziato ITEA S.p.A., Centro Combustione Ambiente S.r.l. ed Ansaldo Nucleare S.p.A. attraverso il PO FESR 2007‐13 “Aiuti ai programmi di investimento promossi da Grandi Imprese da concedere attraverso Contratti di Programma Regionali” per un programma di sperimentazione di quello che sino a qualche anno fa era considerato nel panorama mondiale un progetto senza luce: la dissociazione molecolare (detto anche DISMO). Ma la Regione Puglia e i suoi tecnici hanno creduto nell’approccio e sosterranno le tre aziende private, che poi sono solo una nel classico escamotage delle scatole cinesi, con un lauto finanziamento così ripartito: € 3.125.000,00 per ITEA S.p.A.; € 870.250,00 per Centro Combustione Ambiente S.r.l.; € 459.000,00 per Ansaldo Nucleare S.p.A.
Ora al di là dell’opinabile utilità della dissociazione molecolare (o, come la chiamano ora “ossi-combustione”, in una sorta di mistificazione linguistica simile al binomio “inceneritore-termovalorizzatore”), la quale seppur non producesse diossine, furani, IPA, etc. emetterebbe comunque CO2, che in questo periodo di dibattito sui mutamenti climatici è come parlare del demonio, e scorie vetrose di dubbia innocuità per la salute e l’ambiente, ciò che più sorprende è la presenza nel trittico dell’Ansaldo Nucleare. Perché mai la Regione Puglia finanzia la sperimentazione a Gioia del Colle di un soggetto che si occupa del trattamento di rifiuti nucleari?
Lo stesso progetto era stato precedentemente presentato come innovativo e sostenibile, in grado di risolvere in maniera “pulita” la problematica rifiuti (si leggano in proposito gli articoli sul numero 37 di Villaggio Globale, marzo 2007, nella sezione «La tecnologia li può vincere»). Come mai questo “radicale” cambio di rotta e finalità? Cosa c’era e cosa c’è di sostenibile negli scopi dell’impianto?
Il 17 agosto 2015 sono stato invitato, avendo seguito la vicenda sin dagli albori, presso l’ex fabbrica Termosud di Gioia del Colle, ora di proprietà di Ansaldo-Sofinter, per un incontro con la dirigenza del gruppo finalizzato a comprendere meglio ciò che sta avvenendo all’interno di un impianto sperimentale che è in funzione sul territorio da circa un decennio. Le informazioni fornite dall’azienda sperimentatrice, l’ITEA (la stessa che si è vista, a furor di popolo, costretta a spostare nella Bassa Terronia un impianto preesistente in quel di Bologna, dove nessuno lo voleva), sono state scarse o nulle in questi ultimi anni. A quanto pare, i controlli del materiale utilizzato per i test, delle emissioni a camino e lungo il plume emissivo sono stati effettuati solo dall’azienda stessa, (non vi è traccia infatti nei dati ARPA/P stando a quanto riportato sul sito dell’Agenzia), e sono secretati (nessun cittadino ne ha accesso) per un “segreto sperimentale” a dir poco eufemistico.
Ad ogni modo, l’incontro con i responsabili dell’azienda era finalizzato a render più trasparente ciò che sinora è sempre stato piuttosto opaco e a chiarire il perché della approvazione del finanziamento ad Ansaldo Nucleare. Essendo in zona per le ferie estive, ho accettato con piacere l’invito a partecipare e ho avuto occasione di porre alcune domande tecnico-scientifiche al personale che ci ha accolto in sede. Non è stata una sorpresa constatare che le risposte a ai miei interrogativi erano spesso vaghe e, a mio parere, poco corrette.
L’azienda, per voce dei responsabili dell’impianto, ha spiegato di non aver alcuna intenzione di utilizzare nei prossimi anni, come si era allarmisticamente (a dir loro) paventato, materiale radioattivo durante la fase sperimentale a Gioia del Colle. Da qui è sorta la mia prima domanda: se il finanziamento per la sperimentazione è stato approvato dalla Regione Puglia per sperimentare un processo in grado di trattare rifiuti radioattivi a bassa emissività (da cui la collaborazione con Ansaldo Nucleare), come può l’impianto gioiese fornire indicazioni sull’efficacia di questo processo se effettua i suoi test su materiali non radioattivi?
La risposta della responsabile ITEA, la dott.ssa Grazia Di Salvia (la rappresentante della stessa azienda che 8 anni fa – forse un po’ affrettatamente – veniva menzionata [e era non “vincitrice” come spesso è stato erroneamente riportato] nell’ambito del premio “Impresa Ambiente”, per un progetto che di sostenibile sembra non avere proprio nulla), è stata perentoria e lacunosa. In sintesi, ha sostenuto l’idea secondo la quale i test che verranno effettuati in collaborazione con Ansaldo Nucleare riguarderanno “materiali come il ferro che sono radioattivi naturalmente” e che potranno fornire indicazioni su successivi impieghi del processo nel trattamento di materiali dismessi delle centrali nucleari nel mondo, “come i tubi per il passaggio dei fluidi” o le “tute degli operai delle centrali”. Purtroppo, l’esperta in chimica industriale dell’azienda ha tralasciato alcuni fondamentali dettagli. Il primo è che materiali come il ferro “naturale” non sono di per sé radioattivi, ma lo diventano solo se contaminati all’interno delle centrali o “annegati” (in gergo tecnico) in processi industriali illegali molto diffusi nelle aziende metallurgiche (si legga l’interessante approfondimento qui). Per riportare il ferro a livelli naturali di radioattività ovvero a quelli derivanti da contaminazione ambientale dovuta a elementi radioattivi (cosa che è ben diversa dal sostenere che il Ferro, ovvero l’elemento chimico, è di per sé radioattivo, come affermato dalla Di Salvia durante l’incontro) molte aziende metallurgiche, secondo un business illecito ormai ben consolidato, inseriscono nel ferro alcune scorie radioattive da smaltire. Si tratta principalmente di Cesio e di Cobalto. L’articolo su citato riporta la seguente precisazione: “Si tratta di quei bidoni pieni di palline marroncine grandi un millimetro, che si notano in diverse fonderie.
Cosa si fa con questo materiale? Beh, in fase di fusione lo si immette […] nel ferro. In questo modo, si ottiene che le scorie rimangano chiuse dentro il ferro, ‘annegate’, come si dice”.
Quindi, dichiarare che il ferro possegga in natura isotopi radioattivi, come sostenuto con un eccesso di autorevolezza dall’esperta chimica ITEA, è cosa non da chimici (che mai affermerebbero una simile assurdità) e conferma la vacuità della sua risposta. Forse, la dottoressa avrebbe dovuto rispondere che ciò che verrà testato sarà proprio quel ferro prodotto dalle aziende metallurgiche “annegato” di scorie nucleari, il quale ufficialmente non è classificato come materiale radioattivo, ma effettivamente lo è. Altrimenti non si capisce proprio come test effettuati sul ferro puro (per simulare un processo su materiale radioattivo) possano fornire indicazioni scientificamente valide sull’applicazione del processo in caso di materiali di risulta delle centrali dismesse. A meno che la chimica esperta di ITEA davvero non creda che l’elemento chimico Ferro (26Fe) possa esser radioattivo, o che “una tuta di un operaio di una centrale nucleare essendo fatta di polimeri di carbonio” non sia radioattiva semplicemente perché costituita da plastica (e tutto l’uranio e il plutonio di cui sono contaminate dove lo mettiamo?), perché l’Ordine dei Chimici italiani avrebbe molto da ridire in merito.
Ma sono certo che la dottoressa abbia preferito le inesattezze chimiche, nonostante l’ostentata sicurezza in materia, alle realtà “fisiche” dei fatti. D’altra parte, in quest’ultimo caso, avrebbe dovuto ammettere che una Regione che finanzia una sperimentazione finalizzata al trattamento del materiale di risulta delle centrali nucleari, ma effettua i test su “nessun materiale radioattivo” stia buttando via soldi pubblici. Oppure, nell’unica alternativa e più probabile ipotesi, che la sperimentazione che verrà effettuata nell’impianto gioiese sarà effettuata su barre di ferro, ad esempio, non (ufficialmente) radioattive, ma queste, poiché derivanti dal trattamento di “annegamento” delle scorie, lo saranno certamente.
Quindi o si stanno per sperperare milioni di euro di fondi pubblici destinati alla ricerca per “volatilizzare” barrette di ferro, oppure si stanno per dissociare molecolarmente (ma l’esperta in chimica assicura che, nonostante l’impianto sia lo stesso da me visitato alcuni anni fa quando ancora veniva denominato DISMO, ora non dissocia più, ma “ossida senza fiamma”, mah???) materiali contaminati da veri radionuclidi come il Cesio o il Cobalto.
Peccato che il Cesio, ad esempio, sia un materiale che fonde a 28 °C ed evapora a 600 gradi. Il che significa che in un impianto che testa materiali ferrosi “ossidandoli senza fiamma” a 1500°C ha buone probabilità di emettere in atmosfera l’elemento radioattivo. Trattandosi di fase sperimentale nessuno realmente sa cosa accada ai radionuclidi trattati a quelle temperature e ad alta pressione. Potrebbero sfuggire dal camino dopo pochi istanti, ma ITEA a Gioia non se ne accorgerebbe mai se testasse davvero Ferro puro come sostiene la Di Salvia.
Quindi, alla domanda “a cosa serva una sperimentazione del genere” non è stata fornita una risposta chiara, competente e definitiva. Inoltre, se verrà o no utilizzato del ferro “annegato” di scorie radioattive nell’impianto di Gioia del Colle resta un mistero.
In compenso, per spostare il dibattito che si stava facendo acceso e davvero privo di risposte degne di un confronto scientifico, i responsabili dell’impianto hanno nuovamente rielencato i possibili utilizzi dell’innovatività tecnologia del sistema, tra i quali il trattamento dei rifiuti. Ad esempio – ci hanno scolarizzato – l’AMIU di Bari ha evidenziato che nel periodo estivo vi è una maggior produzione di rifiuti e questi potrebbero essere trattati nell’impianto in via di sperimentazione.
“Perché mai – ho sentito l’impellente necessità di chiedere – i rifiuti solidi urbani prodotti maggiormente in estate in una città come Bari dovrebbero essere trattati dal vostro impianto e non riciclati recuperando materiali ed energia?”.
La non-risposta è stata: c’è sempre una frazione non riciclabile che dovrebbe essere trattata. Vero, allora la nuova domanda è sorta, ancor più, spontanea: “Perché non si continua a utilizzare il trattamento a freddo per la minima frazione non-riciclabile come fatto sinora, processo che già non prevede emissioni di alcun tipo?”. Aleatoria, ancora, la risposta. Anzi, “esotico” è stato definito questo trattamento.
Così, la discussione è slittata ancora, stavolta sui rifiuti speciali. Alla domanda “verranno trattati nell’impianto gioiese?” la risposta di ITEA è stata “anche le vernici con cui abbiamo ridipinto l’impianto sono rifiuti speciali”. Ipse dixit! E poi, “saranno trattati anche rifiuti farmaceutici? “No assolutamente no”. Ma i rifiuti sanitari sono rifiuti speciali (basta verificare la classificazione del Ministero qui).
Con più dubbi che chiarimenti, l’incontro è proseguito nei pressi dell’impianto, lo stesso apparentemente identico a quello da me visionato molti anni fa, quando ancora lo si definiva DISMO (ovvero dissociatore molecolare). Ma quando ho osato chiamarlo così l’esperta in chimica di ITEA è trasalita: non è la stessa cosa! “A me sembra lo stesso DISMO di molti anni fa”, ma lei invece di spiegare in cosa differiva da quello ha semplicemente affermato che l’azienda ha acquistato il nome per tutelarlo, ma è qualcosa di completamente diverso tecnicamente. Cosa? Non ci è dato di sapere… non sarà mica un segreto commerciale come la ricetta della Coca-Cola? O forse vi è la stessa differenza tra un inceneritore e un termovalorizzatore, cioè nessuna?
Il forte dubbio è che quell’impianto tanto e osannato e “menzionato” perché in grado di “bruciare senza fiamma” e senza “l’emissione di diossine provenienti dai processi di incenerimento dei rifiuti, con in più la possibilità di un recupero energetico” fosse stato sopravvalutato sin dall’inizio (anche grazie agli evidentemente eccessivi sforzi promozionali di personaggi come il discusso Walter Ganapini, il quale dopo aver illustrato a una scettica cittadinanza il DISMO di Gioia del Colle si dimise dalla carica di presidente di Greenpeace, che probabilmente non gradì questa sua sponsorizzazione), perché la diossina venne emessa già nelle fasi preliminari e questo fantomatico “recupero energetico” dai rifiuti sa molto di bluff simile alla “termovalorizzazione”.
Ben lungi dall’esser contrario al progresso scientifico, se questo beneficia il mondo e l’umanità e non li danneggia, così come sono contrario all’utilizzo di OGM in agricoltura, ma non mi opporrei mai a una sperimentazione controllata e non contaminante (in laboratorio), per principio non mi opporrei a un progetto come il “DISMO2 la vendetta”, ma questo dovrebbe esser trasparente, chiaro negli obiettivi, controllato e costantemente monitorato.
Quando abbiamo chiesto “chi sta verificando quali materiali giungano all’impianto per i test e quali emissioni vengano rilasciate”, i responsabili dell’azienda sono apparsi poco curanti. L’ARPA? “Noi li avvisiamo 21 giorni prima” hanno detto. Ma dati ARPA su questo impianto negli ultimi anni non si sono mai visiti (e se ci fossero, dove sono?). “Per quel che ci riguarda monitoriamo” – han confermato, ma subito precisando che non possono fornire alla popolazione questi dati. E perché mai? Persino i termovalorizzatori hanno ormai, in molte città, schermi che mostrano in tempo reale le emissioni ai residenti. Perché non è dato di conoscere cosa brucia un impianto che non brucia (?), ma emette e cosa emette un impianto che non tratta rifiuti sanitari, ma speciali sì (?), nucleari no, ma ne testa la radioattività (?) su barre di ferro “naturale non radioattivo”? Che confusione!!!
Infine, le scorie. Nuovamente, come nella classica delle gite scolastiche all’azienda di turno, ci è stato mostrato il risultato del processo di trattamento dei rifiuti (non delle emissioni a camino, ovviamente). Scaglie nere vetrificate di rifiuti processati. “Per farne cosa?”. Pavimentazione stradale – hanno risposto. “E come la mettiamo con l’erosione dell’asfalto e la reimmissione in ambiente dei metalli pesanti e delle particelle stesse che li contengono”. Parafrasando, la posizione dell’azienda è stata: non è una nostra preoccupazione e poi non possiamo pensare a cosa accadrà nei prossimi mille anni. A no? Sembra proprio ciò che dicevano dell’amianto sui tetti vent’anni prima che si scoprisse la sua cancerogenicità. E poi l’asfalto viene eroso in pochi anni, non in secoli o millenni. Finiranno nei fiumi e nei mari di tutto il mondo le particelle vetrificate di rifiuti nucleari, speciali, etc. prodotte dall’innovativo impianto ITEA sperimentato a Gioia del Colle?
Quale onore cittadini gioiesi, non siete fieri di ospitare tale progresso tecnologico? Di cosa vi preoccupate dopo tutte queste esaurienti risposte? C’è una canna fumaria (e sì che c’è, al contrario di quanto affermano nelle interviste alla stampa, dicendo che non ve ne sia necessità – Impossibile fisicamente! – o che dall’impianto venga prodotta “CO2 commerciale da vendere” – A chi? “CO2 commerciale”? Cos’è, la nuova invenzione ITEA?) e nessuno sa cosa vi entra e fuoriesce. Qui c’è bisogno di dati scientifici, non di ennesimo nero, di ignota origine, fumo negli occhi.
ITEA e la sua chimica non mi hanno davvero convinto sull’utilità e l’innocuità del progetto né della sua sperimentazione. Saprà farlo l’ARPA che è preposta al controllo e la Regione Puglia che sta lautamente finanziando tutto questo?
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.
Biologo Ambientale ed Evolutivo
Associate Professor, Biological Institute
Biological Diversity and Ecology Laboratory
Researcher at Bio-Clim-Land Centre of Excellence
Tomsk State University (TSU), Russia
Un’estratto di questo articolo è stato pubblicato su Villaggio Globale di Settembre 2015 e su GioiaNet.it