Quando animalisti e ambientalisti pensano solo a dove mettono i piedi
Qualche anno fa, analizzando le abitudini degli italiani in vacanza, volli scrivere una sorta di vademecum sui comportamenti da adottare e da evitare per coloro che scelgono il mare come luogo di villeggiatura estiva. Invitai a considerare il fatto che le località più gettonate sono anche quelle dove insiste un più alto impatto ambientale e dove la pressione turistica, specie se si tratta di posti esotici, rischia di rovinare il delicatissimo equilibrio di quei luoghi. Quindi meglio scegliere una meta non troppo frequentata. Mi premurai di ricordare il lapalissiano dettame riguardante l’evitare qualunque azione che possa danneggiare l’ambiente che abbiamo scelto di utilizzare momentaneamente come luogo di svago. Oltre alle ovvie raccomandazioni di non lasciate rifiuti in spiaggia (accade soprattutto dopo i falò notturni o i pic-nic sotto l’ombrellone) e di raccogliere, comunque, i rifiuti in maniera differenziata (suggerivo di recapitare direttamente al sindaco i sacchi differenziati e chiedergli di avviare la raccolta, se il Comune dove si è in vacanza non ha predisposto i bidoni separati), rammentavo che uno stile di vita sobrio (anche in vacanza) ci permetterà di poter godere di quei posti da sogno ancora per molti anni. Quindi, evitare di consumare acqua in bottiglia e cibi avvolti in numerosi imballaggi, magari utilizzando fontane pubbliche con acqua potabile e consumando le prelibatezze locali; non danneggiare la fauna marina del posto; lasciare in pace le meduse che, anche se pescate con retini e simili continueranno a proliferare nei nostri mari sempre più caldi se, quando torniamo a casa, accendiamo per ore i condizionatori o ci spostiamo per chilometri in auto invece di privilegiare i ventilatori a pale, il treno o i mezzi pubblici. Se scegliamo di andare al ristorante – suggerivo – sarà meglio evitare di ordinare pesci come tonno, nasello, salmone, orata, merluzzo e scorfano o scampi, gamberetti, cozze e calamari che subiscono pesantemente gli effetti dell’overfishing (ovvero, la pesca oltre i limiti sopportabili dalla popolazione naturale) privilegiando sgombri, aringhe e carpe. Utili accorgimenti in spiaggia – suggerivo infine – sono quelli di evitare di spalmarsi creme solari poco prima di entrare in acqua o di rimuoverle con un telo se la pelle non le ha ancora assorbite e di non fare docce a mare con shampoo e bagnoschiuma che contribuiscono a inquinare la costa (basta sciacquarsi solo con acqua e poi utilizzare a casa saponi, meglio se naturali e biodegradabili).
Tutti questi consigli erano rivolti al cittadino medio, piuttosto disinteressato alle questioni ambientali, che – magari dopo un po’ di proselitismo – riesce a trovare quel senso civico sfuggitogli da tempo o a riflettere su qualcosa a cui non aveva, sino ad allora, dedicato attenzioni. Mai avrei pensato che altrettanta dedizione nell’ammonire dai comportamenti sbagliati dovesse essere rivolta anche a chi le problematiche del mare dovrebbe conoscerle bene: gli ambientalisti e gli animalisti.
Prendo spunto da alcuni recenti episodi ai quali ho assistito con immenso stupore per parlare dei comportamenti di alcuni rappresentanti di entrambe le categorie.
Qualche anno fa, ero in una spedizione di ricerca in mare per valutare l’impatto della pesca sulla fauna ittica, navigando su un peschereccio per il Mediterraneo con alcuni colleghi, quando mi accorsi che la categoria “ricercatori fumatori” con i quali lavoravo era solita consumare le sue sigarette a prua per gettarle spensieratamente nelle acque che scorrevano a poppa. Ora, si presume che i biologi marini abbiano a cuore il mare e le creature che lo popolano, ma questo non evita che essi siano i primi ad inquinarlo. Non è passato certamente inosservato l’allarme recente riguardante le microplastiche che fluttuano nei mari del mondo, dall’Artide all’Antartide, nei più reconditi e insospettabili meandri del pianeta blu. Ma non è solo la plastica a minacciare l’oceano. Liquami, rifiuti industriali, pesticidi agricoli dilavati dalle piogge e antibiotici provenienti dagli scarichi domestici finiscono in mare spesso senza passare per la depurazione. Le cicche di sigarette arricchiscono il museo degli orrori umani che galleggiano nelle acque del pianeta.
Certamente molti ecologi, e gli scienziati in genere, si guarderebbero bene dal contribuire a tutto questo, ma ricordo che quando provai a chiedere a quei colleghi il perché della loro indifferenza nel liberarsi di mozziconi e gomme da masticare lanciandoli in mare, quello stesso mare altamente minacciato che stavamo studiando, un professore a bordo mi rispose: “stai attento, non bisogna confondere gli ecologi con gli ecologisti”. Questo diventò l’anti-motto della mia vita, ovvero ciò che non dovevo essere per essere come volevo essere. Per me può avere un senso solo il contrario: “gli ecologi devono essere i primi ecologisti”, altrimenti l’opinione pubblica non ha una guida di riferimento e si ritrova più confusa di quanto già non lo sia. Come infatti lo è oggi!
Il mare è l’ecosistema del pianeta più a rischio proprio perché per noi rappresenta il luogo finale di “conferimento” dell’inquinamento che produciamo vivendo sulle terre emerse. La maggior parte delle specie ittiche hanno subito una grave riduzione delle loro popolazioni a causa della pesca intensiva, che ha portato gli stock al collasso negli anni ’80-’90 con perdite che hanno raggiunto il 90% rispetto al secolo precedente, e anche per lo sversamento di rifiuti solidi e liquidi in ogni area costiera del mondo. Il Mediterraneo, per la sua particolare conformazione e densità di popolazione umana, è uno dei mari più inquinati al mondo stando a quanto riportano recenti studi e, in particolare, la costa della provincia di Napoli è risultata quella con la più alta quantità di rifiuti galleggianti.
Se i biologi non sono i primi ad adottare i comportamenti giusti, anche durante le loro attività di ricerca, e non ribadiscono con forza che essere ecologisti non è una caratteristica che interessa una nicchia di persone ma un requisito fondamentale dell’uomo moderno (inclusi gli ecologi), vedo poche speranze per i nostri mari.
L’altra situazione che mi ha portato a una profonda riflessione sulle idiosincrasie che interessano e danneggiano il mare, mi è capitata spesso negli ultimi anni mangiando in compagnia di altri vegetariani come me. Alcuni di essi, e non pochi, si stupiscono del fatto che abbia scelto di non mangiare non solo la carne (ovvero ciò che deriva dall’uccisione degli animali terrestri, domestici e selvatici), ma anche il pesce (ovvero i prodotti ittici derivanti da pesca o acquacoltura). A dire di molti animalisti vegetariani, mangiar pesce non pone dinanzi a dilemmi etici. Le motivazioni sono tra le più svariate e fantasiose.
Primo, si difendono: perché i pesci sono animali selvatici che vivono buona parte della propria vita in libertà. Niente di più falso, rispondo senza dubbi, perché i pesci che vengono prelevati dai mari di tutto il mondo, per quanto selvatici, vengono spesso catturati da giovani (ovvero sottodimensionati) perché è ben noto in biologia marina che la pesca intensiva abbia portato le norme sulla pesca e, di conseguenza, i pescherecci a ridurre le maglia delle proprie reti per poter catturare pesci sempre più piccoli a cause degli effetti dell’overfishing sul reclutamento. La restante parte, ovvero pesci, molluschi ed echinodermi di allevamento possono essere paragonati a mucche in stalle d’acqua, pertanto soggetti alle stesse restrizioni, ingozzamenti di antibiotici, alimentazione iperproteiche e prigionie degli animali terrestri d’allevamento.
Secondo, tentano un’ulteriore difesa: perché i pesci non soffrono come agnelli, mucche, galline e maiali per finire nei nostri piatti. Niente di ancor più falso, rispondo senza esitazioni, perché la morte per soffocamento o embolia a cui vanno incontro gli animali acquatici è ancor più terribile e dolorosa di quella degli animali terrestri d’allevamento. Raramente un animale marino muore immediatamente dopo esser stato catturato e si ritrova ad agonizzare per decine di minuti in uno stato paragonabile a un sacchetto in plastica chiuso in testa a un maiale prima della macellazione. Per quelle creature provenienti dai mari profondi il decesso è ancor più impressionante perché causato dalla rapida emersione, imbrigliati nelle reti, che crea una differenza di pressione fatale come per i sub che non compensano mentre risalgono da un’immersione. Non va meglio ai molluschi cefalopodi come il polpo, che riteniamo tanto intelligenti da poter prevedere i risultati delle partite di calcio, ma che sbattiamo “tradizionalmente” da vivi e senzienti sugli scogli per “arricciarne” le carni. Ricordo che il dott. Mario Tozzi, noto geologo e scrittore, rimase talmente scioccato da tale visione nei pressi di Polignano a Mare, in provincia di Bari, invitato all’annuale festival del libro che si tiene nella meravigliosa cittadina pugliese, che denunciandone la brutalità dal palco della sua presentazione si vide recapitare immeritati e, lasciatemelo dire, ignoranti fischi dal pubblico locale, strenuo sostenitore del “polpo arricciato sullo scoglio”. Se i polpi fossero cani e gli scogli quelli di Shangai avremmo già condannato “i brutali orientali”.
Terzo, e ultimo stoico tentativo di difesa: perché non importano tanto le sofferenze degli animali, quanto le problematiche ambientali connesse al consumo di animali terrestri che non interessano, invece, gli animali marini. Niente di ancor più assurdamente falso, rispondo piuttosto sconvolto, perché è proprio in mare, con il continuo prelievo di animali selvatici da parte di una crescente flotta globalizzata, che stiamo avendo la maggior perdita di biodiversità e la più alta riduzione delle specie selvatiche. Ad oggi resta meno del 10% della biomassa animale marina (ovvero del peso vivo di tutte le specie animali marine) rispetto ad alcuni decenni fa. Com’è potuto accadere? La causa primaria è stata l’aumento indiscriminato dei pescherecci e delle loro dimensioni. Il motivo secondario, l’utilizzo improprio di modelli matematici per stimare “l’optimum” del prelievo ittico che ha sempre sottovalutato i rischi portandoci all’attuale catastrofe. La ragione terziaria, ma non meno importante, la credenza popolare che coinvolge anche gli pseudo-animalisti-vegetariani che nutrirsi di animali marini sia più sostenibile.
Sarò un po’ pessimista sulla situazione dei nostri mari e degli oceani del mondo, ma se non saremo in grado – parafrasando il cantautore Roberto Vecchioni – di “vivere come le cose che diciamo” non potremo mai “essere felici”. La speranza vien dal mare, ma può anche non ritornare.
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.
Biologo ambientale ed evolutivo
Professore associato, Istituto di Biologia, Tomsk State University, Russia
Ricercatore associato, Dipartimento Forestale e delle Risorse Naturali, Purdue University, USA
Pubblicato su Villaggio Globale Trimestrale di Giugno 2018