Lascereste mai vostro figlio, di qualche mese di vita, in ammollo in una vasca piena di mercurio? O steso al sole alle 14 di ferragosto? Immagino proprio di no. Eppure ogni genitore, inconsapevolmente, ha posto in serio pericolo suo figlio. Coloro cresciuti tra gli anni 80 e 90 sono stati certamente sottoposti a un esperimento del quale avrebbero voluto con piacere fare a meno: lo sviluppo delle plastiche flessibili. Ovvero, l’utilizzo di sostanze come il bisfenolo A (BPA) all’interno di una vasta gamma di prodotti per bambini (come succhiotti, tettarelle dei biberon, pigiami con illustrazioni stampate, etc.) e in moltissimi alimenti in scatole di alluminio rivestite con quella sottile pellicola plastificata (come legumi, tonno, salsa, etc.).
Dopo anni di evidenze scientifiche e di battaglie di ambientalisti e associazioni dei consumatori, se si passeggia ora lungo i corridoi di un supermercato ci si imbatte spesso in prodotti che riportano la dicitura “BPA-free”, che conferma l’assenza di bisfenolo A. Fino a qualche anno fa molte posate in plastica, bottiglie di bibite e cibi in scatola di cui si fa largo consumo contenevano il pericolosissimo BPA. Persino nel momento di pagare in cassa eravamo minacciati da questa sostanza. Gli scontrini infatti contenevano una discreta percentuale di bisfenolo.
Il ritiro parziale dal mercato del BPA è il culmine di due decenni di ricerca e centinaia di studi che collegano questo composto, che simula il comportamento di alcuni ormoni sessuali chiamati estrogeni, agli effetti negativi per la salute nei roditori e nell’uomo. La decisione dalle autorità di regolamentazione negli Stati Uniti e nell’Unione Europea il divieto di BPA nei biberon, insieme a campagne di attivisti del settore, ha convinto molti consumatori che la plastica e altri contenitori attualmente utilizzati per conservare i cibi sono sicuri.
Ma si tratta di una falsa sicurezza. Infatti il BPA è ancora un costituente di molti contenitori per alimenti, specialmente in scatola e da quando le aziende hanno abbandonato il BPA, spesso utilizzano composti come il sempre più comune bisfenolo S (BPS) con caratteristiche molto simili al precedente composto chimico e probabilmente responsabile di molte delle stesse preoccupazioni che riguardano il BPA. “Le persone utilizzano questa sostanza chimica per sostituire il BPA senza sufficienti informazioni tossicologiche”, ha dichiarato Kyungho Choi , un tossicologo ambientale presso la Seoul National University alla rivista Nature. “E questo è un problema”.
Il BPA prodotto dal 1950 si è rivelato essere, nel corso del tempo, molto pericoloso per la salute. Quando, infatti, questa sostanza si diffonde dalle materie plastiche nel cibo e viene ingerita inconsapevolmente possono insorgere patologie gravi come la riduzione della fertilità e del peso alla nascita, anomalie genitali maschili, sviluppo comportamentale alterato, diabete, malattie cardiache e obesità (si legga, ad esempio, Nature 464, 1122-1124, 2010).
Nel 2011, l’Unione europea ha vietato il BPA dai biberon e gli Stati Uniti hanno seguito l’esempio un anno più tardi. Ma i rivestimenti a base di BPA sono ancora presenti sul rivestimento interno della maggior parte delle lattine per alimenti e bevande e vengono utilizzati per isolare le tubazioni per l’approvvigionamento idrico in molti paesi. Il composto si trova anche in sigillanti dentali e nelle incubatrici per i neonati prematuri.
Nel tentativo di sostituire il BPA, la ricerca di un’alternativa per il cibo in scatola e le bevande si è rivelata particolarmente complessa. La creazione di un rivestimento economico per barattoli adatti a una vasta gamma di alimenti, dai legumi ai pomodori, non è semplice. Non solo la confezione deve impedire ai batteri e ai funghi di attaccare il cibo, ma il rivestimento della lattina deve arrestare la corrosione del metallo da parte del cibo e del liquido in esso contenuto. Inoltre, quando il metallo viene a contatto con gli alimenti, può rovinarne il sapore.
I produttori, poi, devono anche trovare rivestimenti che impediscano ai composti dello zolfo, presenti in proteine, conservanti e pesticidi, di reagire con il metallo e formare macchie di ferro poco piacevoli o solfuro di stagno. Nessun rivestimento privo di BPA si è ancora rivelato efficace nell’evitare tutto questo.
I rivestimenti epossidici a base di BPA sono ampiamente utilizzati perché sono resistenti, flessibili ed economici. Tollerano le alte temperature necessarie per sterilizzare gli alimenti durante l’inscatolamento e non interagiscono con la maggior parte dei cibi e delle bevande. Si stima che il 95% dei rivestimenti di tutto l’alluminio e l’acciaio è costituito da resine epossidiche e oltre il 99,9% di queste contengono BPA (Nature, 508, 306-308, 2014).
Anche se esistono alternative, non mancano gli inconvenienti. Nel 1999, un istituto del Michigan ha rivestito i barattoli di fagioli con oleoresine a base vegetale, ma questa procedura ha aumentato il costo dei barattoli di oltre il 20%. I rivestimenti in oleoresina possono anche alterare il gusto del cibo e sono vulnerabili agli attacchi di alimenti altamente acidi come il pomodoro.
Alcuni produttori giapponesi hanno iniziato a utilizzare rivestimenti a ridotto quantitativo di BPA. Altri usano rivestimenti acrilici, che sono troppo fragili per l’uso in molti barattoli, o vinilici e fenolici, i quali possono avere ugualmente effetti estrogenici.
Nuove opzioni stanno cominciando a emergere: si sta sviluppando un polimero BPA-free prodotto dalla Eastman Chemical Company a Kingsport, nel Tennessee, che viene utilizzato nei biberon.
Al contrario dei problemi di sostituzione del BPA nelle scatolette, per i biberon e gli scontrini di cassa la soluzione si è rivelata essere relativamente semplice. Quando il BPA cadde in disgrazia, molti produttori s’interessarono a un omologo strutturale del composto: il BPS. Una molecola di BPA è costituita da due gruppi fenolici collegati da un gruppo ramificato di tre atomi di carbonio (si veda figura 1). In una molecola di BPS (figura 2) i due gruppi fenolici sono invece collegati da un gruppo solfato (SO2) .

Fig. 1 Bisfenolo A
Il BPS è stato utilizzato per la prima volta nel 1869 come colorante, ma essendo stato introdotto nei beni di consumo nel 2006 (ad esempio negli scontrini), alcuni ricercatori hanno studiato la sua tossicità solo di recente e i dubbi se il BPS sia tossico come il BPA sono ancora molti.
La somiglianza della struttura del BPS a quella del BPA è sufficiente a sollevare sospetti che il bisfenolo S possa imitare gli estrogeni, che sono molecole più piccole e contenenti più anelli fenolici. Questi anelli possiedono “ornamenti” chimici che si legano ad una particolare “tasca” dei recettori degli estrogeni nel corpo. Il BPA e il BPS hanno circa le stesse dimensioni degli estrogeni e gli anelli fenolici possiedono “ornamenti” così simili da potersi inserire perfettamente nei recettori per gli estrogeni.

Fig. 2 Bisfenolo S
Le cellule ipofisarie sono particolarmente sensibili agli estrogeni. Anche a livelli molto bassi, il BPS innesca la cascata enzimatica normalmente attivata da un estrogeno chiamato estradiolo, un effetto osservato anche con il BPA. Quando è associato con livelli di estradiolo trovati in donne adulte, il BPS sembra sovra-stimolare la reazione, chiudendo i recettori e provocando un “suicidio cellulare“.
Altri ricercatori hanno documentato effetti simili. Susanne Bremer e i suoi colleghi presso l’Istituto per la Salute e la tutela dei consumatori, un centro di ricerca finanziato dalla Commissione europea presso l’Ispra, in Italia, hanno testato il BPS e il BPA su una linea cellulare umana estrogeno- sensibile. Hanno scoperto che entrambe le sostanze chimiche si comportavano come gli estrogeni, ma erano 100.000 volte meno attive dell’estradiolo. Anche piccoli pesci (zebrafish) esposti a 0,5 microgrammi di BPS per litro di acqua (circa un sesto della concentrazione massima rilevata nell’ambiente) producevano meno uova, prole malformata e un rapporto superiore tra estrogeni e testosterone rispetto ai pesci non esposti.
Siamo esposti a BPS in molti modi diversi. Oltre che sugli scontrini di cassa del registro, il BPS è presente sulle etichette per i bagagli aerei e sulle carte d’imbarco, ma anche in altri prodotti realizzati con carta riciclata come le scatole per la pizza e i cestini dei pop-corn.
Alcuni ricercatori stimano che l’esposizione media giornaliera al BPS attraverso la pelle è ben al di sotto dei valori soglia per gli effetti tossici. Tuttavia, considerato il potenziale livello più alto di esposizione da altre fonti, come il cibo, sono necessari ulteriori studi sul composto. Alcuni tossicologi sostengono che anche piccole quantità di imitatori degli estrogeni possono causare problemi.
Alcuni produttori hanno abbandonato il gruppo del bisfenolo alla ricerca di un sostituto. Nel 2007, la Eastman Chemical Company ha lanciato Tritan, una nuova plastica trasparente resistente al calore, per i prodotti per la cura infantile come i biberon. Questa plastica BPA-free da allora ha sostituito il vecchio policarbonato contenente BPA anche in molte bottiglie d’acqua, nei contenitori per alimenti e nelle tazze per bambini. La Eastman dichiara che i risultati dei test, analizzati da Thomas Osimitz of Science Strategies, una società di consulenza a Charlottesville, in Virginia, hanno verificato che i monomeri di Tritan non si legano agli estrogeni o ai recettori degli androgeni.
Nel 2011, si è scoperto che il 92% dei 102 prodotti di plastica disponibili in commercio contenevano sostanze chimiche con attività estrogenica, incluse le plastiche pubblicizzate come prive di BPA. La ragione è che gli additivi della plastica, usati come stabilizzatori e lubrificanti, possono anche legarsi ai recettori degli estrogeni, così come alcuni degli stessi monomeri della plastica.
Persino le resine in Tritan prodotte dalla Eastman sono risultate tra i polimeri che hanno mostrato attività estrogenica nelle analisi. Wade Welshons, che studia gli interferenti endocrini presso l’Università del Missouri in Columbia ha testato indipendentemente cinque bottiglie Tritan con lo stesso dosaggio dei test precedenti e ha riferito di aver trovato l’attività estrogenica rilevabile in ciascuna prova. Ma nonostante questo, al processo richiesto dalla ditta produttrice la giuria ha deliberato in favore della Eastman e il giudice ha diffidato i gruppi di ricerca dal fare affermazioni circa l’attività estrogenica del Tritan.
La Eastman dichiara che l’attività estrogenica non è imputabile al polimero Tritan in sé, ma ad altri composti aggiunti durante la produzione di materie plastiche. In fondo, per gli acquirenti, la sostanza non cambia perché i danni per la salute sono sempre imputabili alle complesse miscele di sostanze chimiche utilizzate con la plastica. Nel 2012 nel mondo sono stati prodotti circa 280 milioni di tonnellate di plastica. Secondo un modello, basato sul Sistema mondiale armonizzato di classificazione ed etichettatura delle sostanze chimiche delle Nazioni Unite, oltre il 50% di queste plastiche contengono ingredienti che possono essere pericolosi (si veda Nature 494 , 169-171, 2013). Alcune sono cancerogene, mentre altre sono estrogeniche.
Insomma, che si tratti di bisfenolo A, di bisfenolo S o di qualunque altro composto contenuto nella plastica, la nostra salute è minacciata. La geniale invenzione dell’ennesimo creativo italiano, Giulio Natta, si è rivelata essere l’avanzamento più straordinario e radicale nella scienza dei materiali, il prodotto più utilizzato al mondo, surclassando carta e vetro, e allo stesso tempo il più pericoloso per la salute e l’ambiente, nonché il più difficile da biodegradare.
Nell’Oceano Pacifico galleggia un’immensa isola di plastica accresciuta dalla dispersione in mare dei rifiuti. La biodegradabilità della plastica può raggiungere tempi come secoli o addirittura millenni e, durante il processo di composizione, il rilascio di sostanze pericolose, come i metalli pesanti, inquina l’acqua e il suolo. La combustione è altamente pericolosa a causa della produzione di diossine e furani cancerogeni, che si disperdono con scarsa degradabilità nei dintorni attraverso i fumi.
Il problema dello smaltimento della plastica sta diventando ancor più grave nei Paesi in via di sviluppo in cui non esiste un sistema di raccolta, riciclo o smaltimento e questi rifiuti (prevalentemente bottiglie d’acqua – non essendo possibile bere acqua corrente – e sacchettini in plastica nera – utilizzati praticamente per tutto, anche come contenitori di cibo appena cucinato) vengono rilasciati ovunque e, di tanto in tanto, accumulati e bruciati.
Trovare un alternativa a un prodotto così duttile è difficile. Anche i sacchi per la spesa biodegradabili hanno un costo ambientale ed economico non indifferente, sebbene siano certamente più innocui per la salute e non inquinino. Il problema è che sono poco resistenti e quindi non adatti a tutto. Alcuni, per fare la spesa al supermercato, preferiscono borse in tela o in plastica spessa a sacchetti che rischiano di rompersi dopo qualche minuto. Pensare di poter produrre questo tipo di sacchi biodegradabili (o addirittura bottiglie biodegradabili) in Africa, ad esempio, appare al momento un’utopia.
Le economie ricche potrebbero investire di più sull’educazione e incentivare la riduzione dell’acquisto di cibo in scatola e, in generale, di prodotti in plastica, oltre a migliorare il sistema di riciclo dei materiali, rendendolo efficiente e capillare (con la raccolta differenziata porta a porta, ad esempio). Allo stesso tempo, il trasferimento di conoscenze verso i Paesi più poveri potrebbe rendere più sensibile la popolazione ai danni causati dallo smaltimento incontrollato e dalla combustione della plastica. Ma non sarebbe abbastanza. È necessario che le economie emergenti adottino presto misure per differenziare i propri rifiuti e che gli stati più poveri ricevano quel know-how di cui tanto si parla, ma che poco si esporta.
Il problema non è tanto il BPA o il BPS. Il problema è lo sviluppo incontrollato e il consumismo imperate. Abbiamo tutti dimenticato che sino a qualche decennio fa i nostri nonni utilizzavano contenitori non-usa-e-getta per tutto e il cibo in scatola era considerato “cibo di guerra”. Nessuno dei nostri avi, in tempi di pace, avrebbe mai pensato di ingerire lenticchie, fagioli o pomodori provenienti da una scatoletta o alimentare i propri figli al biberon e non al seno. Altrimenti quale starebbe la differenza tra i periodi di crisi e quelli di benessere? Forse la nostra, pur se apparentemente priva di guerre (almeno in Occidente), è un epoca di decadenza peggiore delle precedenti, in cui le mamme non vogliono rovinarsi il seno allattando e, invece, rovinano i propri figli con i biberon e gli uomini non vogliono coltivare la terra e mangiare cibo fresco e, così, coltivano i propri tumori e le proprie malattie da civiltà.
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.
Biologo ambientale ed evolutivo
Pubblicato su Villaggio Globale di giugno 2014