“Come stai?”
“Bene grazie!”
Quante volte, nell’arco di una giornata siamo partecipi di questo rapido e convenevole scambio di cortesie? Vuole la prassi, o forse il galateo, che si domandi alla persona che s’incontra qualcosa d’importante per la sua vita, fingendo spesso che ci importi davvero. Così è entrato nell’uso comune chiedere all’altro qual è il livello di benessere in cui versa o rispondere, in ogni caso, che tutto vada bene. Ma in quel “bene grazie” si nasconde un fondamentale elemento della nostra esistenza che pian piano abbiamo imparato a dimenticare, per semplificarlo, rendendolo incipit delle nostre conversazioni. “Bene grazie, ma mi hanno licenziato la scorsa settimana”; “bene grazie, ma ho un’allergia che mi opprime”… e così via.
Cosa vuol dire davvero star bene
Se il concetto di benessere è stato, nel tempo, banalizzato è soprattutto perché non siamo più in grado di comprendere appieno il suo profondo significato. Come scrive Arthur Schopenhauer in Parerga e paralipomena del 1851:
“Se si vuole valutare la situazione dell’uomo per quanto riguarda la felicità, non si dovrà cercare ciò che gli dà piacere, ma ciò che lo conturba: quanto più irrilevante è infatti quest’ultimo elemento, preso in sé stesso, tanto più felice è l’uomo. Uno stato di benessere è ciò che rende sensibili alle piccolezze, che per contro non sono affatto da noi sentite nell’infelicità”.
Star bene, dunque, secondo il filosofo tedesco non vuol dire una continua ricerca del piacere, ma la capacità di essere sensibili, di apprezzare, le piccole cose. Capacità che si perde nella condizione d’infelicità. Soltanto l’uomo in grado di cogliere la straordinarietà delle piccole cose, e di conservare la capacità di apprezzare proprio ciò che viene dato per scontato per la maggior parte della vita o dalla maggior parte delle persone, è in grado di sentirsi davvero bene. Perché la prima condizione fisiologica necessaria per assicurare un’esistenza piacevole è l’omeostasi. In altre parole, “restare nello stesso stato”. Che significa tutt’altro che non mutare mai, anzi. I sistemi biologici per poter vivere sono dotati della straordinaria capacità di mantenere uno stato stazionario fisiologico, anche se sottoposti a stress di varia natura, e ritornare ad uno stadio di equilibrio dinamico (cioè in costante oscillazione rispetto ad un range di possibilità). Qualunque avvenimento, sia esso un’infezione, un conflitto, una mutazione delle condizioni esterne o interne al sistema biologico, rientra quasi sempre all’interno di un livello di tollerabilità che garantisce il funzionamento del sistema stesso. Fenomeni estremi che non permettono all’organismo di restare all’interno dei limiti omeostatici di sopravvivenza non permettono adeguate condizioni di vita e spesso sono causa di morte.
Il benessere nel XXI secolo e nella storia
E’ sempre più comune, in tempi moderni, morire di stress. L’arresto cardiaco a riposo, l’infarto notturno, sta diventando una delle principali cause di decesso nel mondo occidentale. L’accumulo di condizioni di vita che si discostano dalle caratteristiche evolutive in cui si è sviluppata la nostra specie allontanano il corpo e la mente, ed il tuttuno che essi formano, dall’omeostasi.
Non è ben chiaro perché lo stress uccida. Ciò che è certo è che i sistemi nervoso, cardiovascolare, gastrointestinale, respiratorio, escretore, immunitario influenzati dai processi mentali d’elaborazione degli stimoli esterni reagiscono in simultanea “rifiutando se stessi”, come in una sorta di rigetto, nel momento in cui si supera la soglia omeostatica limite.
A partire dalla scissione dei proto-agricoltori dai popoli di cacciatori-raccoglitori si è verificato un progressivo allontamento dalle condizioni evolutivamente stabili che erano state selezionate nel corso degli ultimi 2,5 milioni di anni e che hanno forgiato il genere Homo adattandolo perfettamente all’ambiente ed alle sue sollecitazioni. Questa dissociazione ed il susseguente cambiamento di abitudini ha subito spesso accellerate improvvise che non hanno consentito il giusto ristabilirsi degli equilibri dinamici, provocando problemi sociali a causa di “maladattamento” individuale. Basti pensare, ad esempio, all’improvvisa condizione di stress dovuta alla convivenza in gruppi di persone molto più grandi rispetto al passato ed al dover necessariamente gestire una serie di relazioni sociali, fonte d’innumerevoli stimoli sensoriali.
L’uomo ha dovuto far fronte a questo mutamento riadattando velocemente il proprio sistema cognitivo, sviluppando la capacità di astrazione ed un linguaggio articolato basato su idee, immagini ed ipotesi.
Lo strumento sviluppato dall’uomo per compensare un disadattamento che stava per causare un collasso dei sistemi fisiologici dovuto all’accumularsi di “stress sociale”, quindi, si è trasformato in un rapido salto evolutivo “d’evitamento”. La continua e lenta, graduale e casuale selezione dei caratteri utili alla sopravvivenza professata dal darwinismo tradizionale viene messa proprio in discussione da questi improvvisi balzi evolutivi, noti come equilibri punteggiati (si veda Gould, Stephen Jay, Eldredge, Niles, 1977 Punctuated equilibria: the tempo and mode of evolution reconsidered. Paleobiology 3,2: 115-151).
Qualsiasi sia il modello selettivo utilizzato, l’Homo faber l’ha sfruttato a suo vantaggio, svincolandosi dal pericolo di fuoriuscire fatalmente dai limiti omeostatici. Questo salto in lungo nella storia naturale si è riverificato molte volte durante la storia umana. Nel Medioevo, ad esempio, l’affollamento sociale non era l’unico fattore di stress. Continue epidemie, guerre, strutturazione oligarchica e timore dell’ultraterreno avevano ingenerato un senso di disillusione e paura generale, radicandosi in un allontanamento dalla Natura, considerata selvaggia e piena di pericoli imprevedibili. Questa presa di distanze, però, non aveva fatto altro che accentuare la precaria condizione di vita al limite del “malessere sostenibile” dall’individuo. Vedendo nella Natura la principale antagonista e non riconoscendo nell’arteffatto mondo che stavano costruendo la causa primaria d’insoddisfazione, i nostri antenati medioevali avevano avviato un’inconsapevole ulteriore balzo evolutivo, per svincolarsi dai limiti omeostatici, che li avrebbe condotti nella condizione di Homo urbanus.
Accade spesso in Natura che siano proprio i fattori di stress e l’evitamento di questi grazie alla plasticità fenotipica a far insorgere nuove strategie comportamentali, nuovi adattamenti e, pertanto, nuove specie.
Dopo la fase greco-romana di stress da aggregazione sociale ed il periodo medioevale di allontanamento dalla Natura, il nuovo e modernissimo elemento di anti-benessere (sarebbe improprio definirlo malessere) è la condizione di uomo urbanizzato.
Inquinamento, traffico, globalizzazione, iperaggregazione, soffocamento tecnologico, sollecitazioni sensoriali pubblicitarie, etc. rendono la vita del cittadino moderno continuamente sottoposta a stimoli frustranti. Questo fenomeno appare chiaro se si analizzano i dati dei tassi di depressioni e suicidi nel Mondo. Ai primi posti figurano quelli che consideriamo i paesi più “sviluppati”, “civilizzati” ed “urbanizzati”. Ma se a queste definizioni associamo accezioni positive, perché gli individui che vivono in tali condizioni sono più propensi ad ammalarsi o a togliersi la vita? Proprio perché, come avvenuto in passato, vivere al limite delle condizioni omeostatiche porta alla morte o, se vi sono le giuste condizioni, a balzi evolutivi improvvisi.
In quest’epoca, però, appare molto più drammatico il divario che si frappone tra la condizione di vita umana e le condizioni di benessere per le quali è stata selezionata. Il rifiuto delle proprie esigenze evolutivo-fisiologiche e l’allontanamento progressivo e distruttivo dalla Natura, sembrano nel XXI secolo aver raggiunto i livelli massimi d’intollerabilità per l’esistenza dell’Homo urbanus.
Benessere interno lordo, abolendo il PIL
E’ stata proprio la constatazione che, probabilmente, più che un altro balzo verso l’ignoto della selezione ci si ritroverà presto a contare le vittime dell’estinzione di massa generata dalla condizione umana moderna, ad aver stimolato il dibattito su come misurare davvero il benessere.
Sin’ora è sempre stato accettato il concetto di Prodotto Interno Lordo come indicatore dello sviluppo di un Paese, senza mai considerare realmente cosa il PIL misurasse davvero. D’altra parte, proprio i paesi a più alto PIL non mostrano incremento nel benessere dell’individuo.
Come dichiarato da Robert Kennedy nel suo famoso discorso del 18 Marzo 1968:
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo”.
Il riconoscimento dei limiti dello sviluppo (si veda Latouche S. e Pallante M., tra gli altri) ha gettato le basi per individuare nuovi metodi di valutazione della “felicità di una nazione”. Tra questi, ad esempio, il Bhutan ha proposto l’idea del Gwp (general wellbeing, benessere generale) sostenuto dai Premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, che da sempre invitano il mondo occidentale a non misurare lo sviluppo solo con parametri economici.
Il concetto è innovativo ed il piccolo Paese himalayano è nella lista dei 10 stati “a maggior benessere percepito”, ma ceramente non risolve un problema di fondo ben più grande.
Il benessere della Natura dopo millenni di evoluzione
Ciò che il Gwp non può, così come nessun altro indicatore, misurare è il livello di benessere della Natura e questo può apparire insignificante dal momento che qui si discute di felicità dell’essere umano. In realtà, dai greci al medioevo, ai grattacieli di Manhattan l’assenza di benessere umano è sempre stata condizionata dal rapporto con l’ambiente. Più ci si è distanziati dal considerarsi parte del mondo naturale, più il livello d’insofferenza per la propria condizione di vita (malattie dello sviluppo) è aumentato. Non sono tanto i rapporti sociali o lavorativi a creare quel livello di benessere tanto ricercato dalla nostra specie negli ultimi secoli, quanto il ritorno al sentimento di appartenenza ad un unità che fa sentire ogni azione compiuta importante perché permette l’esistenza stessa di quel tutto. Le popolazioni umane che ancora vivono in stretto contatto con la Natura sono quelle a soffrire meno dei mali della civiltà (si veda “Il paradosso della civiltà”, R. Cazzolla Gatti, 2013, Adda Editore e Trends in human development and environmental protection, International Journal of Environmental Studies, Vol. 4, 2016). In Oriente si percepisce meno quel disagio (evidenziato da Freud nel suo trattato dal titolo Il disagio della civiltà del 1930) dovuto al costante attrito tra la volontà istintiva alla liberà dell’individuo e le costrizioni imposte dalla società civile. In molti Paesi d’Asia l’ideologia religioso-filosofica fondata sull’unione degli elementi e sull’interdipendenza con l’ambiente di cui si è parte integrante, forniscono la chiave di risoluzione del conflitto individuo-società e mantengono l’essere umano in una condizione di armonia con il resto della Natura, simile a quella dei popoli indigeni. Questi ultimi non sanno nemmeno se possa esistere qualcosa di alternativo al “benessere”, poiché la loro condizione perfettamente integrata alla Natura non li allontana mai dall’equilibrio dinamico omeostatico in cui si sono evoluti.
Il benessere degli animali
Il benessere tanto osannato da una specie che non sa più dove cercarlo, poiché ha dimenticato di esser parte di qualcosa più grande ed importante di lei viene, poi, sottratto a tutti gli altri elementi che compongono la sfera delle esistenze di cui si illude di poter fare a meno, di poter soggiogare e maltrattare. Ci sono voluti millenni prima che venisse riconosciuta agli animali non umani la capacità di provare sensazioni simili a quelle dell’uomo. Ci sono voluti secoli dopo per stabilire cosa sia il benessere per una vita non umana. E probabilmente ancora non l’abbiamo compreso. Perché si considera benessere garantire una ciotola d’acqua ad un cane pur se lo si è privato di libertà legandolo ad una catena o alimentare di buonissimi crackers il pappagallino dopo averlo rapito da una foresta ed avergli tarpato le ali. Continuiamo a considerare benessere l’uccisione rapida con un colpo di pistola in testa dei vitelli in fila nei macelli, mentre osservano chi li precede dissanguarsi a testa in giù. E riteniamo sia benessere allevare polli ammassati in pochi metri quadri, con le zampe fratturate affinchè producano felici uova ogni mattina. Valutiamo sia benessere utilizzare milioni di cavie non umane per sperimentare cosmetici e farmaci, che alla fine intossicano anche l’uomo o testare gli effetti della gravità-zero sulle scimmie o sui topi affinchè gli astronauti non “abbiano malesseri nello spazio”.
Il benessere dell’uomo
Siamo la società con il più alto consumo di antidepressivi e tranquillanti. E ci arroghiamo il diritto di sapere quale sia il benessere per un coniglio (è benessere devastare gli occhi di un animale per mettere un rossetto dermatologicamente testato?) o per una foresta tropicale (è benessere tagliare giganteschi alberi per trasformarli in parquet?) o per una barriera corallina (è benessere sbiancare ogni straordinaria simbiosi per l’assurda voglia di viaggiare in SUV?) o per un oceano (è benessere distruggere la vita dei mari per mangiar sushi il giovedì?).
Ma oltre ad essere presuntuosi giudici delle condizioni di vita altrui, dimentichiamo che proprio il sentirci esentati dal rispetto di quelle leggi universali e naturali che regolano il mantenimento omeostatico degli esseri viventi e di Gaia (dell’organismo-pianeta Terra profetizzato da J. Lovelock e L. Margulis) è causa della nostra stessa sventura.
Solo quando impareremo a considerare il benessere degli altri requisito fondamentale per una vita condotta in armonia con la Natura, potremo sentire sulla nostra pelle la dolce carezza del vento alla quale un tempo davamo il nome di felicità. Solo così ci libereremo dal “disagio e dai paradossi della civiltà”. Solo allora saremo davvero liberi.
Come scriveva Charles Bukowski in Storie di ordinaria follia:
“L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci: soprattutto perché provi un senso di benessere, quando gli sei vicino”.
Forse, allora, non servirà più un indicatore a misurare quanto stiamo bene e non ci sarà neanche necessità di chiederlo ad ogni persona che incontriamo. Perché “bene grazie” non sarà un’automatica risposta ad una retorica domanda, ma la condizione di base per vivere. Con gli altri.
Per gli altri.
Roberto Cazzolla Gatti
Biologo ambientale ed evolutivo
Pubblicato su Villaggio Globale del 24/02/2013