«Gli esperimenti nucleari hanno fatto aumentare la ricaduta radioattiva e l’industria nucleare sta facendo aumentare i livelli di radiazione di fondo, che potrebbero superare il nostro livello di tolleranza. Le nostre varie attività industriali stanno inoltre modificando le superfici freatiche, contaminando le falde acquifere, erodendo e desertificando il nostro terreno arabile e, in generale, modificando il nostro ambiente a tal punto che molte delle sue caratteristiche essenziali non rientreranno più nel nostro intervallo di tolleranza». Questo diceva il famoso ecologo Eugene Odum sul finire degli anni Ottanta in merito ad una discussione sulla capacità del pianeta Terra di tollerare una specie tanto devastante come la nostra. In un tentativo di ampliamento del dibattito Edward Goldsmith, noto ambientalista e «premio Nobel alternativo per l’ambiente», definiva i sistemi naturali come «quei sistemi che possono comportarsi omeotelicamente solo entro il loro intervallo di tolleranza».
L’omeotelia e tolleranza
La sua affermazione per essere compresa appieno richiede l’approfondimento di due concetti fondamentali: omeotelia e tolleranza. Ma perché sono così importanti questi due termini? Perché definiscono senza molti giri di parole che cosa vuol dire «naturale». Infatti qualunque sia il nostro sistema in considerazione, lo possiamo definire naturale se esso racchiude in sé le condizioni di omeotelia e tolleranza. La prima stabilisce che esiste un fine che deve essere perseguito, che è quello del mantenimento dell’ordine generale del sistema più ampio di cui il componente o microsistema fa parte, per essere considerato naturale. La seconda, derivante dalla prima, implica che per il raggiungimento di questo fine, unico per l’intero sistema (omeo – stesso, telos – fine), è necessario assicurare un comportamento all’interno dell’intervallo di tolleranza. In altre parole un modo di vivere confacente ai limiti ambientali del sistema.
È, dunque, naturale solo ciò che persegue il fine del mantenimento del sistema – nel caso concreto il mantenimento della vita sulla Terra – e che per farlo opera all’interno di quelli che sono i limiti di sopravvivenza della Terra stessa.
Da qui sorge la necessità di definire, prima di inoltrarsi nel filosofico-scientifico antitetico confronto Uomo/Natura, quale sia l’opposto di «naturale».
La storia della civiltà umana associa quest’opposizione al termine «artificiale». L’etimologia della parola deriva dal latino artificium, artificio. Cioè «fatto per mezzo dell’arte». I dizionari riportano il seguente significato: «non naturale; fatto, ottenuto ad arte, con artificio. Che è fatto, prodotto dall’opera umana e non dalla natura; che sostituisce, surroga un’operazione o un prodotto naturale: lago artificiale; allattamento, respirazione artificiale; ghiaccio artificiale; fiori artificiali, fuochi artificiali, fuochi d’artificio».
Ma sia l’etimologia, sia il significato espresso nei dizionari contengono un errore di fondo associabile all’evoluzione della considerazione che la specie umana ha di se stessa.
Se, infatti, siamo tutti concordi nel ritenere che, essendo la Natura l’insieme di tutti gli esseri viventi e della matrice non vivente presenti sulla Terra (e nel resto dell’Universo), qualunque suo elemento come la formica ed il castoro, ne sia parte, quindi «naturale», ci risulta ben più difficile considerare l’uomo un suo «naturale» elemento. Ancor più difficile appare poter definire le azioni compiute dall’essere umano come «naturali», tant’è da avere l’esigenza di etichettarle come «artificiali», frutto appunto dell’ars operandi.
Il cavillo filosofico, però, s’insinua sibilante nelle distratte accezioni da vocabolario. Come può definirsi naturale, ad esempio, la diga creata dal castoro e non quella realizzata dall’uomo? Come può un termitaio di 10 piani essere meno artificiale o più naturale, dipende da quale parte lo si considera, di un grattacielo a New York? E così come può essere naturale il trasporto volante dei pidocchi sui piccioni ed artificiale un volo su un Boing 727?
Un sottile confine
Qual è allora il sottile confine tra naturale ed artificiale? Probabilmente esso risiede nel concetto profondo di Natura delle società Occidentali più di quanto crediamo. Per l’uomo vernacolare, o ctonio, non esiste alcuna differenza tra l’opera umana e quella della Natura, poiché l’uomo fa parte della Natura ed essendone parte agisce in «maniera naturale». Deriva dalla commistione tra religione e presunzione l’idea che l’uomo «civile» non faccia, invece, parte della Natura e che possano esistere, appunto, l’uomo e la Natura come due entità separate.
Poiché riteniamo la Natura l’insieme dei costituenti del pianeta non possiamo tirar fuori la nostra specie dal farne parte. Anche l’uomo, pertanto e nonostante l’opposizione dei meccanicisti e dei religiosi monoteisti, è naturale, poiché è parte del sistema più ampio in cui vive.
Non ha senso alcuno la frase «non naturale, che non è fatto dalla Natura» poiché tutto ciò che è presente sul pianeta, a prescindere dalla specie che lo realizza, uomo incluso, è naturale. Non può esistere qualcosa di «artificiale» nel vero senso del termine all’interno del sistema Terra. Anche i concetti riportati di fuoco o ghiaccio artificiale non hanno alcun motivo d’esistere poiché non vi è una sostanziale, e non banale, differenza tra i fuochi delle sagre e quelli prodotti dai fulmini, tra il ghiaccio dei poli e quello dei frigoriferi. La differenza sta nel fatto che definiamo artificiale e non naturale tutto ciò che realizza la nostra specie. Allo stesso modo i conigli potrebbero definire artificiali le loro tane ricche di cunicoli e corridoi e naturali quelle delle talpe. Ma tra esse non vi sarebbe alcuna reale distinzione se non la presunzione di una specie di potersi distinguere dalla Natura grazie al suo modus operandi.
Non abbiamo difficoltà a dimenticare tutto questo e fornire un infinito elenco di elementi artificiali prodotti negli ultimi due millenni, eppure non riusciamo a trovare «artificiale» neppure un solo prodotto di una specie animale o vegetale. Può esistere una tossina vegetale artificiale prodotta da un albero di savana? No, rispondiamo senza esitare, perché l’albero fa parte della Natura e la sua tossina è quindi un derivato naturale, mentre quelle prodotte in laboratorio dall’uomo non lo sono. E perché? Perché sono prodotte dall’uomo, è la riposta che si inabissa in un tautologico vortice senza più emergere.
Alla fine degli anni 90, fu realizzato in Arizona l’esperimento Biosfera 2, il cui numero stava ad evidenziare il fatto che la biosfera 1, la principale, fosse la Terra. L’idea era quella di ricreare un ecosistema completo e autosufficiente per poterne studiare le applicazioni per una futura colonizzazione spaziale. Inoltre, l’obiettivo del progetto prevedeva anche lo studio dello sviluppo di piante ed animali, dei cicli vitali dei microrganismi e del riciclo degli elementi chimici. Pur contenendo tutti gli ecosistemi presenti sulla Terra, come una barriera corallina, una foresta di mangrovie, una savana, un deserto, un sistema di campi coltivati e una zona destinata alle abitazioni e ai laboratori, l’esperimento ben presto fallì e fu abbandonato. Un tasso insolitamente alto di anidride carbonica prodotta dai batteri presenti provocò la morte di molte piante e l’implosione degli ecosistemi presenti. L’esperimento fu, però, utile per comprendere la complessità della Terra e dei sistemi da essa regolati.
Come si pone, adesso, questo esperimento nei confronti del dibattito tra artificiale e naturale? È naturale, poiché realizzato da una specie che appartiene comunque alla Natura, o artificiale poiché ha tentato di ricreare in maniera fallimentare il sistema naturale da cui esso stesso deriva?
La questione si complica. Dovremmo, dall’analisi sopra effettuata, considerare anche questo fallimentare esempio di artificializzazione, un naturale prodotto dell’uomo al pari dei palazzi, delle auto e dei PC. Tutto ciò che avviene sulla Terra, fa parte della Terra, è naturale. Ogni più piccolo elemento chimico appartiene al pool di elementi già contenuti sul pianeta ed immaginando il mondo come una scatola in cui tutti i pezzi all’interno sono soggetti alle stesse leggi, non si può che concordare sul fatto che ogni processo che avviene dentro la scatola sia frutto stesso della scatola. Persino le sostanze di sintesi sono definibili naturali. L’obiezione principale deriverebbe dalla considerazione che l’uomo è in grado di produrre materiali che precedentemente non erano presenti in Natura. Ma questo risposta la questione sul se esiste qualcosa che possa essere considerato «non appartenente alla Natura». Anche le piante infatti durante la loro evoluzione hanno «creato» l’ossigeno mediante la fotosintesi. Eppure questo elemento non esisteva nell’atmosfera altamente ridotta dell’Archeozoico. Molti molluschi del genere Conus hanno evoluto sistemi per produrre potenti neurotossine che precedentemente non esistevano in Natura. Sono queste considerabili di sintesi? Certamente, poiché derivano dalla sinterizzazione di composti semplici. Sono artificiali? Assolutamente no, perché sono frutto del lavoro di esseri viventi appartenenti alla Natura.
Da questo lungo ragionamento quindi sembra non venir fuori alcuna distinzione tra naturale ed artificiale. Non appare esserci alcun discerno tra l’opera umana e quella del resto del vivente. Come possiamo pertanto definirci «diversi», coloro che minacciano la vita sul pianeta, gli artefici di una distruzione in corso se non possiamo distinguere ciò che è naturale, e per definizione innocuo, da quello che è artificiale, e che spesso tende ad essere dannoso?
Un posto nella natura
Esiste probabilmente un rimedio all’inghippo epistemologico. Innanzitutto, andrebbe eliminato il concetto di artificiale, poiché esso si fonda, come dimostrato, su assunzioni erronee, presuntuose ed antropocentriche. Bisognerebbe ricominciare a considerare l’uomo parte integrante della Natura. Né l’uomo fuori dalla Natura, né l’uomo contro di essa. Ma inevitabilmente ed inconfutabilmente parte di essa. Qualunque cosa l’uomo faccia, sia essa innocua o dannosa, simile o dissimile dall’esistente, riproduzione o sintesi, è naturale.
Poi, però, dopo aver ridato un posto nel mondo all’uomo, che tanto si crede superiore e si fa ad immagine e somiglianza di un Dio da ritenere le sue opere differenti da quelle che il resto della vita realizza, andrebbe individuato a scanso di equivoci come possa essere definita un’azione o un prodotto «innaturale». In altri termini, se abolissimo, perché concettualmente fatuo, il concetto di artificialità, cosa contrapporremmo alla naturalità? La risposta potrebbe essere l’«insostenibilità» o l’«eterotelia». Ogni azione, di qualunque specie uomo incluso, andrebbe così sempre definita naturale, ma differenziata tra sostenibile o insostenibile, omeotelica o eterotelica. Notiamo, infatti, che rispettando questo nuovo paradigma una capanna nella foresta risulta sostenibile ed omeotelica rispetto al sistema di cui fa parte, mentre un grattacielo al posto di una palude bonificata è insostenibile ed eterotelico. Entrambe le costruzioni, però, risultando da quell’ecosistema mentale che Gregory Bateson ha per primo riconosciuto, non possono che essere definite naturali, poiché realizzate all’interno dei confini della Natura.
L’uomo ritorna, in questo modo, ad esser parte della Natura così come lo è sempre stato secondo Locke ed Hobbes, prima che il pensiero decadentista lo estraniasse, alienasse ed erigesse su un piedistallo «artificialista». Le sue azioni vengono, invece, distinte in omeoteliche ed eteroteliche, sostenibili ed insostenibili per specificare se esse tendono ad integrarsi e preservare l’ordine naturale oppure a danneggiare il sistema di cui fanno parte.
Un astronauta in orbita con la sua navicella nello spazio si ritroverà in una condizione tanto naturale quanto eterotelica/insostenibile, poiché la sua vita all’interno della navicella non sarebbe possibile se non per un tempo limitato, attraverso il sostentamento da Terra. La vita del pigmeo o dell’aborigeno australiano dovrà invece essere considerata sempre naturale, per le ragioni di cui sopra, ma anche omeotelica e sostenibile poiché tenderà a mantenere la stabilità del tutto in cui si svolge.
Diventa ora più facile valutare dove si è disgiunto quel patto di naturalità tra una delle tante specie che compongono la scatola della Natura ed il resto del contenuto. Capire come e quando abbiamo smesso di essere omeotelici/sotenibili e siamo diventati eterotelici/insostenibili.
Per farlo appare calzante il parallelo con l’organismo del singolo individuo. Le patologie legate al cancro sono aumentate esponenzialmente negli ultimi decenni, con un picco registratosi proprio nell’ultimo anno. La proliferazione di cellule cancerose è certamente un processo naturale di de-programmazione cellulare che porta all’invasione, all’ipertrofia ed al disequilibrio di un piccolo gruppo di cellule a discapito del resto del sistema. Un carcinoma è, ad ogni modo, un elemento naturale del corpo. Il suo comportamento, però, è certamente insostenibile per il sistema ed eterotelico, poiché minaccia il mantenimento dell’ordine dell’organismo di cui fa parte e non agisce con lo stesso fine del tutto: il mantenimento in vita del corpo. Un organo di un corpo sano è tanto naturale quanto un carcinoma, eppure lo possiamo definire omeotelico e sostenibile poiché esso agisce in modo da preservare l’equilibrio del sistema di cui fa parte, ed anzi ne favorisce l’esistenza.
Allo stesso modo, per quanto non possiamo più definire in alcun modo artificiale qualunque opera umana e la riammettiamo nell’ambito delle azioni naturali, vanno distinti i casi in cui l’uomo si comporta da cancro per l’organismo Terra di cui è parte o da cellula di un organo sano.
Soltanto guardando alla Terra come un insieme con proprietà emergenti più complesse della somma di quelle dei sistemi che lo compongono e risultato dell’interrelazione gerarchica delle singole parti in esso contenute possiamo comprendere la sottigliezza della distinzione «comportamentista» umana. Se guardiamo alla Terra, come suggerito da James Lovelock e Lynn Margulis, come ad un essere vivente autonomo, chiamato Gaia, allora possiamo ben capire che negli ultimi due secoli l’uomo ha assunto quella che per l’organismo dell’individuo è definibile come comportamento canceroso. L’uomo è diventato un tumore per il pianeta. E questo non perché ha smesso di comportarsi naturalmente ed ha realizzato opere «artificiali», ma perché ha abbandonato l’omeotelia e la sostenibilità di quelle opere.
Troppo spesso si è trovata giustificazione al comportamento distruttivo umano nei confronti dei sistemi terrestri, come le foreste, le paludi, gli oceani (tutti gli organi grazie ai quali sopravvive Gaia) invocando l’artificialità del suo agire, quasi fosse una specie di deus ex machina euripidiano. L’assurda innaturalezza proclamata a discolpa da una pletora antropocentrica di pensatori ha, in tal modo, permesso che ogni intervento, realizzazione ed azione umana non venisse giudicata nei termini di una legge naturale universale, ma sottoposta al vaglio del mutevole moralismo delle società che si sono succedute. Risultato: un passo dopo l’altro verso la distruzione della Terra…
L’ammissione che qualunque cosa l’uomo faccia rientri sempre all’interno del sistema naturale e quindi ogni sua opera sia «naturale» porta a dover sottoporre alla legge di natura il comportamento umano. E stando alla legge naturale universale, qualsiasi realizzazione o azione che minaccia l’equilibrio del sistema di cui fa parte è da considerarsi «illegale». O meglio: insostenibile/eterotelica. Come ha brillantemente espresso uno dei padri dell’ecologismo mondiale, Aldo Leopold: «una cosa è giusta quando tende a preservare e proteggere l’integrità, la stabilità, la bellezza della comunità biotica. È sbagliata quando tende altrimenti».
La scusante «artificialista» ha permesso la distruzione incontrollata di buona parte degli ecosistemi mondiali. Abbiamo operato da castori ciechi. Da termiti impazzite. Da elefanti alienati. E lo abbiamo fatto con la naturalezza più estrema, ma con l’insostenibilità più orba.
Nulla vieta al tumore di uccidere l’organismo che lo ospita. Sarebbe considerato un processo, comunque, naturale. E nulla vieta all’uomo di uccidere il Pianeta che lo ospita. Anch’esso non sarebbe altro che un comportamento naturale.
Ma sia il cancro, sia l’uomo agirebbero contro il fine, il telos, del sistema che garantisce la loro stessa vita. E se un senso, uno solo, l’infima e stolta mente umana può contemplare per questa vita è proprio quello di permettere la vita stessa. Di consentirne l’esistenza. Di mantenerne l’integrità. Il senso della vita è sotto i nostri occhi ogni giorno, eppure ci ostiniamo a non vederlo. È più consapevole una qualsiasi cellula del nostro corpo di quale sia il senso della sua esistenza, quello di permettere la vita all’intero organismo grazie all’integrazione di ogni suo organo composto da milioni di altre cellule, di quanto lo sia il nostro cervello che riteniamo pensante.
È più cosciente una formica del ruolo che svolge all’interno del suo ecosistema, di quanto lo sia mai stato l’uomo, da tempo immemore in lotta contro la Natura. In lotta contro se stesso. Perché se l’uomo è parte della Natura, la sua lotta finirà per uccidere anche lui. E come un cancro che non persegue più lo stesso scopo del suo organismo, così un bel giorno navigando in un mare di tecnologia che continueremo ostinatamente a definire artificiale, ci renderemo conto che Gaia, il grande e straordinario organismo di cui facciamo parte, è ormai allo stadio terminale. Divorato dal tumore dell’insostenibile naturalezza con cui realizziamo qualcosa che invece ci illudiamo essere stata «fatta ad arte»!
Pubblicato su Villaggio Globale di Giugno 2012 http://www.vglobale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14318%3Atutto-nella-biosfera-e-naturale-anche-luomo&catid=1160%3Alartificiale-non-esiste&lang=it