Tutti pazzi per l’antiquariato

Chiamatela nostalgia per i tempi che furono, ma la stragrande maggioranza della popolazione mondiale tende ad avere una sorta di rimpianto per le cose antiche. Trattasi di un ben noto atteggiamento mentale che porta l’uomo a sentirsi più confortato da ciò che «non è moderno». E con non moderno si intende del passato o del futuro. Da qui nasce la spinta alla ricerca dello sviluppo ad ogni costo, la riscoperta dell’antiquariato o la passione per le «guerre stellari». Solitamente ciò che più facilmente si ignora ed, a volte, disprezza è proprio il presente, il contemporaneo. Ma al di là delle motivazioni recondite e delle interpretazioni psicologiche c’è un elemento fondamentale che porta a considerare le cose del presente come brutte e quelle del passato belle. È la constatazione che qualcosa nel mondo moderno sta violando i canoni dell’estetica rendendo qualunque opera, per quanto avveniristica possibile, un pugno nell’occhio per chi la guarda. E la colpa certamente non può essere solamente degli architetti. C’è, nel nuovo, una perdita del senso di unione col contorno, che negli elementi del passato non è presente.

 

Un moderno grattacielo sfigura dinanzi ad una villa rurale dei primi dell’Ottocento. Così come una chiesa romanica dinanzi alla modernissima cattedrale in cemento armato. E gli esempi riempirebbero fogli interi, come quelli dei cataloghi dell’arte «nuova». Quello che manca è il legame imprescindibile col mondo naturale, col contorno appunto. In Natura ogni elemento evolve insieme all’ambiente di contorno, come in un’eterna danza armoniosa. Non c’è variazione, passaggio appunto dal vecchio al nuovo, che non si fondi sull’imprescindibile interconnessione tra l’elemento in evoluzione ed il resto delle parti. Così in questo fluire dinamico non può non cogliersi l’universale inseguimento di una finalità, quella teleologia da cui tanto la scienza aborrisce, che è la chiava di lettura della vita.

 

Senza l’infinito mutare e scorrere, seguendo la freccia del tempo, non potrebbe esistere alcuna forma di esistenza. Da lungo tempo la scienza ignora i concetti di finalità e di continuum. Sono spesso relegati nel settore della metafisica, come qualcosa che non ha alcuna attinenza con la realtà. Non può esistere un fine, arguiscono i più scienzocratici, perché contemplando uno scopo in Natura si darebbe adito all’invocazione di un’entità ultraterrena. Non può esistere un’equifinalità dei processi, così come dei sistemi. Ed invece ciò che accade è esattamente il contrario. Ogni sistema naturale tende verso una sorta di obiettivo che è quello del mantenimento della vita stessa. Solo considerando la Terra, come Gaia, cioè come elemento a sé stante in cui tutte le parti, dagli ecosistemi, sino agli esseri viventi, per finire alle molecole concorrono al suo mantenimento, il concetto di fine può essere compreso appieno. Se guardiamo agli ecosistemi non vediamo congregazioni canoniche di elementi, ma un’intelaiatura complessa in cui ogni parte ha l’obiettivo di preservarne la sua integrità.

 

Prima e dopo, vecchio e nuovo e la stessa vita terrena non avrebbero alcun significato se non ci fosse un fine. Quel senso della vita spesso invocato da religioni e filosofie ed a lungo ignorato dalla mondo scientifico, che racchiude in sé non solo una rivelazione, ma un radicale cambiamento di prospettiva.

Iniziare a riconsiderare il vecchio per migliorare il nuovo è ciò che sempre avviene nei processi evolutivi, dei quali la maggior parte è stimolata dal reciproco adattamento, tra animale e pianta, ospite e parassita, simbionte e simbionte, etc. Una coevoluzione che non significa assolutamente una corsa agli armamenti da sfoderare gli uni verso gli altri, ma un reciproco e mutuale beneficio che permetta agli attori coinvolti sulla scena di adattarsi meglio al pubblico ed al teatro.

Così i colibrì coevolvono insieme alle orchidee che custodiscono il nettare fondamentale per la loro sopravvivenza; i pesci spazzini insieme ai loro «clienti» predatori; i polpi dei coralli insieme alle alghe fotosintetiche. Ed è l’insieme di queste relazioni che struttura gli ecosistemi garantendo un senso al suo evolvere.

 

La cooperazione alla base del cambiamento, fondamentale per il passaggio tra il vecchio ed il nuovo.

Una lezione che l’essere umano ha spesso voluto ignorare e che ha trovato giustificazione nel neo-darwinismo per cui l’unico obiettivo dei viventi è il successo riproduttivo. D’accordo, ma a quale scopo? Il mantenimento della vita, appunto. Ma senza un fine non può esserci un senso ed ecco che la risposta emerge dalla stessa domanda.

Come può il gorilla avere un senso se il suo unico scopo è quello di ingerire sufficienti calorie affinché la lotta per l’esistenza gli permetta di riprodursi? Qual è il fine della termite se lo si riduce all’allevamento della prole nell’intricato termitaio? E quello dell’albizia se lo si sintetizza nella produzione di polline e nel rilascio di sostanze allelopatiche nel suolo per il «controllo del territorio»? Nessuna di queste domande avrebbe una risposta non retorica se non assemblate ed inserite in un contesto più ampio che consideri le storie evolutive delle singole specie come un accorato e ben coordinato movimento per il mantenimento di un sistema più grande che è la Terra.

Per quanto la scienza moderna possa rifiutare di cogliere un fine nelle cose del mondo e dare ad ogni bioprocesso il giusto significato all’interno della sfera di relazioni cooperative multiple che ne sono i pilastri fondamentali, non c’è dubbio che il cambiamento sia alla base di tutto. E non può esserci cognizione del cambiamento se non si è in grado di discernere tra vecchio e nuovo.

 

L’unico modo per farlo è considerare l’evoluzione non solo una scienza storica, che guarda al passato perché solo da lì può attingere le informazioni sui perché del presente, ma anche una scienza diagnostica, che permette di comprendere il significato dei mutamenti. Non il «caso» e la «necessità», ma il «fine» ed il «significato» sono i motori che alimentano l’Universo.

Come un nuovo immenso palazzo vetrato a pochi passi dal mare è sintomo di una totale incomprensione umana del fine della vita, un vecchio fienile in legno è segno di saggezza e comprensione di quel senso. Non si tratta di sindrome dell’antiquariato, ma forse i nonni dei nostri nonni credevano più alla loro scienza dotata di uno scopo, che a quell’asettico abominio che definiamo scienza moderna.

Ed allora che si torni al Vecchio per imparare a vivere di Nuovo!

Pubblicato su Villaggio Globale di Marzo 2012 http://www.vglobale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=14074%3Atutti-pazzi-per-lantiquariato&catid=1149%3Abiodiverista-addio&lang=it