La necessità di «sapere insieme» alla Natura

Non c’è epoca storica, escludendo il Medioevo, in cui l’esigenza di una coscienza nuova sia tanto necessaria come l’attuale. E forse è il Medioevo il periodo più simile al nostro XXI secolo. Un nuovo medioevo culturale, sociale e politico. Un’epoca in cui ogni certezza non viene messa in discussione ma lascia il posto semplicemente allo scetticismo, al sospetto, all’indifferenza.

Nel 300 si credeva di conoscere tutto ciò che la mente umana potesse comprendere, si credeva di vivere nella miglior forma di governo possibile, si pensava di giudicare, punire, considerare gli altri nel modo più etico possibile. Queste stesse ineluttabili convinzioni sono alla base del pantano in cui stagna il secolo della tecnologia.

 

È quanto mai opportuno, parlando di coscienza, ricordare il famoso incipit del «Dialogo sopra i due massimi sistemi» di Galileo Galilei, per riportare alla nostra mente il travaglio di coscienza, appunto, che ogni rivoluzione, da quella eliocentrica a quella «naturocentrica», deve superare per riconsiderare sotto una nuova luce le evidenze che, per citare le stesse parole di Galileo, «sono chiare solo una volta che le si sono dimostrate». È il Salviati nella monumentale opera dello scienziato italiano ad introdurre l’annosa questione: «[…] E perché, collocando il Copernico la Terra tra i corpi mobili del cielo, viene a farla essa ancora un globo simile a un pianeta, sarà bene che il principio delle nostre considerazioni sia l’andare esaminando quale e quanta sia la forza e l’energia de i progressi peripatetici nel dimostrare come tale assunto sia del tutto impossibile; attesoché sia necessario introdurre in natura sustanze diverse tra di loro, cioè la celeste e la elementare, quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca».

 

Quale sforzo dunque, la mente umana, ha compiuto per ammettere a se stessa un sostanziale mutamento di paradigma? L’ammissione che le cose del mondo non vadano come l’uomo ha stabilito a tavolino? Quella stessa ammissione, ancor più dolorosa, che in epoca vittoriana vide Charles Darwin combattere con la sua di coscienza per non infierire il colpo finale alla già compromessa statua dell’orgoglio umano.

Eppure, ne l’Origine dell’Uomo il suo rigore morale e la sua ferma convinzione del valore della scienza lo portavano, contro i sentimenti della sua amata e credente moglie e dell’establishment ottocentesco, ad affermare che: «L’uomo nella sua arroganza si crede un’opera grande, meritevole di una creazione divina. Più umile, io credo sia più giusto considerarlo discendente degli animali». Sferrava così l’ultimo scossone al piedistallo, riportando «sulla Terra» quell’essere da sempre ritenutosi per coscienza «superiore».

 

Certamente il definitivo tracollo della presunzione dilagante, che pur sotto i macigni di una rinnovata consapevolezza copernicano-galileano-darwiniana ha tentato in tutti i modo di mantener saldo il suo primato sulla Natura, grazie soprattutto allo sforzo profuso dalle differenti religioni monoteiste incapaci di guardare al di là (e non nell’aldilà) dell’ombra umanoide il valore del Tutto, potrà giungere da quelle che saranno, certamente, le due prossime rivoluzioni: la scoperta della coscienza delle piante e la conferma dell’esistenza della vita extraterrestre (garanzia della coscienza dell’Universo).

Molto probabilmente la prima potrà arrivare più rapidamente nel bazar dei nuovi media se gli scienziati del settore sapranno rinunciare ai dogmi ed al sapere precostituito ed inizieranno ad investigare l’insondato. Da qui scopriranno gioie e dolori di un regno ancora escluso dai sentimenti, coglieranno l’unione imprescindibile degli elementi di un ecosistema e l’indispensabile comunicazione tra gli esseri che lo compongono.

Non più, dunque, l’uomo come animale parte e non centro di un Sistema solare, bensì l’uomo, come creatura parte della Vita senziente, in mondo di periferia, pur se di straordinario valore.

Che si realizzi la seconda, o sarebbe meglio dire la quarta considerando le due già avvenute, delle rivoluzioni è aspetto assai intrigante. La scoperta di vita aliena potrebbe aprire nuovi scenari, demolire certezze, ristabilire il valore di ogni cosa. Eppure sembra di difficile realizzazione. Non impossibile però. A ben vedere anche nel Medioevo non si aveva la benché minima idea che il sole fosse al centro e l’uomo invece no.

 

Tutto questo ragionamento, tra rivoluzioni e cambi di paradigma, sta ad ogni modo tralasciando il nodo gordiano della discussione. Il sol fatto di essere consapevoli di un simile ragionamento risalda qualche marmoreo frammento del piedistallo. Non l’uomo sopra tutto il resto, ma l’uomo diverso dal resto. Non una scala gerarchica, ma un’unità discreta. Poter ragionare sul proprio mondo è certamente sinonimo di coscienza, anche da una prospettiva epistemologica. «Cum-scire», ovvero «sapere insieme», è l’etimologia di un qualcosa che spesso diamo per scontato, ma che quando ci fermiamo a considerare, ci appare di eccezionale interesse. «Sapere insieme», dunque, cioè capire di essere qualcosa in un contesto, piuttosto che comunicare all’esterno la condizione interiore di un determinato momento, come si è solitamente definita la coscienza.

Essere consapevoli di se stessi. Ma tale consapevolezza non può esistere se non si è consapevoli di ciò che c’è all’esterno. Degli altri. Dell’ambiente. Ecco, quindi, che emerge il profondo significato, spesso associato a dilemmi morali, religiosi o filosofici («fa ciò che ti dice la coscienza…»; «non senti la voce della tua coscienza?»; «non hai un minimo di coscienza!»; si è soliti dire non riflettendo sul senso di queste parole), che è racchiuso in un concetto quanto mai astratto. Come si è visto, i fondamenti su cui spesso si basa una simile consapevolezza, tendono a disgregarsi nel tempo.

 

Nonostante questo, il nostro «sapere di essere al mondo» ci garantisce quel minimo di autocoscienza, che ci permette di sopravvivere senza troppe preoccupazioni. Ma la «mente» non è dissociata dal «corpo», come sostenevano i cartesiani e quindi ogni nostra azione si ripercuote sul nostro stato psichico ed infine, sulla nostra coscienza. Sorge così, un’altra importante proprietà: la coscienza non è statica. Evolve nel tempo insieme all’organismo di cui ne è parte.

Differenti dalle macchine con ingranaggi, gli altri animali (oltre all’uomo) sembrano avere tutte le carte in regola per possederne una. Che si tratti di consapevolezza di sé (sempre sottovalutata dagli etologi con i classici «test dello specchio») o di sentirsi appartenenti ad un mondo e di comprendere l’altro, ogni animale vivente sembra esserne dotato.

Simili affermazioni pongono interrogativi più profondi e lasciano, ovviamente, nello sconcerto i fautori dell’unicità della coscienza umana. È facile smontare l’assunto alla base di quest’esclusiva condizione, andando alle origini del concetto stesso di coscienza.

 

«Sapere insieme», in altre parole, sapere che esisti anche tu, ed in questo modo riconoscere che io e te siamo due entità distinte ma, allo stesso tempo, unite (come Sigmund Freud sosteneva nella sua «teoria dei meccanismi difensivi dell’ego»). Anzi, volendo andar oltre, si potrebbe dire che quell’antico legame che vincola gli animali alle leggi della Natura, oramai da tempo spezzato dalla superbia umana, rende il livello di coscienza animale non umana, di un gradino superiore (se non fosse specioso stabilire una graduatoria) a quella dell’uomo.

Sembrano infatti esser molto più consapevoli, e pertanto coscienti, di appartenere alla Natura gli animali non umani, di quanto lo siamo noi. È proprio questa involuzione di coscienza, nonostante le due rivoluzioni conclamate e le altre due in fieri, che sta ponendo le basi per la distruzione della vita evolutasi sulla Terra.

L’attuale crisi climatica, la deplezione degli ecosistemi, l’inquinamento dilagante e l’erosione della biodiversità sono gli estremi fenomeni di una preoccupante perdita dell’idea di «sapersi insieme». Di coscienza appunto. Noi uomini, talmente presuntuosi, come affermava Darwin, da crederci gli unici esseri dotati di consapevolezza di sé, non solo non ci accorgiamo di quanta più coscienza sia insita in ogni essere animale o vegetale intorno a noi, ma siamo orbi dinanzi al pericoloso smarrimento del senso di appartenenza, che la nostra civiltà sperimenta nei confronti della Natura. Assuefatti come siamo dal turbinio ipertecnologico dispensatore di effimere gioie e d’insulsi bisogni, abbiam messo da parte il sentimento di unione col Tutto e dimentichiamo, giorno dopo giorno, di non poter esistere se non «insieme» al resto.

Questo le piante lo sanno bene, nel momento in cui strutturano una foresta scambiandosi messaggi nel suolo o nell’aria e non distruggendosi a vicenda per puro dominio o egoismo. Questo lo sanno anche i minuscoli polipi che compongono, strato dopo strato le barriere coralline e garantiscono la vita ad altri milioni di esseri, consapevoli essi stessi della presenza altrui. Lo sa la minuscola formica, che pur essendo parte di una colonia è in grado di comprendere il suo ruolo in quel micromondo, o il mastodontico elefante che non trova giovamento se non nell’appartenenza al suo gruppo matriarcale. Si pone sotto nuova luce, pertanto, l’ennesima proprietà intrinseca della coscienza: l’appartenenza. Solo chi sa di appartenere al resto, di esserne interconnesso, interdipendente può vantarne una. Chi è, quindi, ora l’unico essere che sembra non averne più di coscienza? Non gli «altri animali», o le immobili piante, ma proprio l’unica creatura che se l’è sempre riconosciuta.

 

Da questa, ultima, «presa di coscienza» si può, ora, partire per svilupparne una nuova. Ammettere che la nostra unicità non risiede nell’esser stati forgiati dal divino, inviati per dominare le terre, i mari ed i cieli o posti al centro dell’Universo per scrutarne l’imperscrutabile, non sta nell’essere consapevoli della nostra vita, della nostra mente e del nostro corpo per sottomettere la Terra, ma solo nell’aver scoperto il tempo ed essere, forse, gli unici a poterlo immaginare.

Ma questa nuova coscienza, l’essere consapevoli del tempo che passa, è un impegno morale contratto nei confronti della vita stessa. Siamo in grado di capire che panta rei, tutto scorre, e tale straordinario potere si è evoluto non certo senza motivo. Come colonizzatori sovrasviluppati di un pianeta limitato, abbiamo l’obbligo di sfruttare «la scoperta del tempo» per far sì che la vita continui a prosperare. Non sappiamo se ve n’è dell’altra al di fuori del sistema copernicano, ma siam certi di quella che è racchiusa nel magico scrigno della Terra. Darwin ci ha riportato in connessione con ogni altra forma, in qualche modo ci ha dato coscienza di appartenere al Mondo. E presto anche il regno vegetale ci delizierà con le sue infinite forme di coscienza. La prossima fondamentale rivoluzione, non verrà però né dalla vita aliena né dagli esseri dotati di clorofilla, ma dalla nostra mente. Solo se smetteremo di crederci superiori e riconosceremo che la nostra è una delle tante forme possibili di consapevolezza, sfrutteremo ciò che davvero ci distingue e ci valorizza, facendo della nostra capacità di pensare al tempo, di immaginarlo, la speranza per l’infinito perpetuarsi della vita, allora, e solo allora, potremo davvero esser certi di aver acquisito una nuova coscienza. Di esser tornati ad appartenere alla Natura. Di «sapere insieme»…

Pubblicato su Villaggio Globale di Novembre 2011 http://www.vglobale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=13758%3Ala-necessita-di-lsapere-insiemer-alla-natura&catid=1141%3Averso-una-nuova-coscienza&lang=it