Nel 1967 Lynn (Sagan) Margulis propose che i mitocondri e i plastidi fotosintetici sono stati acquisiti da procarioti e si sono evoluti simbioticamente in cellule animali, vegetali e fungine. Sebbene la maggior parte di questa teoria sia stata accettata dai biologi, l’ipotesi che le spirochete endosimbiotiche si siano evolute in flagelli eucariotici e ciglia, e le successive proposte di un’endosimbiosi che abbia dato origine ad altri organelli eucariotici come perossisomi, gliossosomi, etc. non hanno ricevuto molto consenso nel mondo scientifico, dal momento che le evidenze suggeriscono l’assenza di un genoma e di somiglianze ultrastrutturali di questi organelli con batteri o archaea.
Tuttavia, nel 2016 (Cazzolla Gatti, R. 2016. A conceptual model of new hypothesis on the evolution of biodiversity. Biologia, 71[3], 343-351) ho proposto l’idea che mitocondri, plastidi, cellule procariotiche ed eucariotiche e persino flagelli e perossisomi, come endosimbionti primari o secondari, possano aver trasferito una parte o, persino, tutto il loro Dna al nucleo della cellula ospite attraverso un processo chiamato «endogenosimbiosi» (attraverso, cioè, un trasferimento di geni simbiotici, mediante l’internalizzazione del Dna dell’endosimbionte con trasferimento laterale). Inoltre, l’ipotesi dell’endogenosimbiosi potrebbe essere la spiegazione di alcuni casi documentati di vera evoluzione simpatica delle specie (ovvero di speciazione nello stesso habitat e senza necessità di barriere fisiche), a quanto pare inspiegabile dalle teorie canoniche di questi processi evolutivi.
Nel 2018, una versione estesa della mia teoria endogenosimbiotica è stata pubblicata dalla rivista scientifica «Theoretical Biology Forum» (Cazzolla Gatti R. 2018 Endogenosymbiosis: from hypothesis to empirical evidence towards a Unified Symbiogenetic Theory (UST). Theoretical Biology Forum, 111:1-2, 13-26). Questa «Teoria Unificata della Simbiogenesi» integra la «teoria seriale dell’endosimbiosi», proposta da Margulis nel 1967, con la mia teoria dell’endogenosimbiosi avanzata nel 2016 in un quadro unificato e generale.
L’importanza della simbiogenesi nell’evoluzione delle specie è stata ulteriormente confermata qualche anno fa da un importante studio pubblicato su «Nature» (Steidinger et al. 2019. Climatic controls of decomposition drive the global biogeography of forest-tree symbioses. Nature, 569, 404–408), a cui ho avuto il privilegio di collaborare.
Dentro e intorno alle radici aggrovigliate del suolo della foresta, funghi e batteri crescono con gli alberi, scambiando i nutrienti con il carbonio in una sorta mercato globale. La nostra ricerca pubblicata su «Nature» ha mappato la più abbondante di queste relazioni simbiotiche, coinvolgendo più di 1,1 milioni di siti forestali e 28.000 specie di alberi, e ha rivelato i fattori che determinano dove si realizzano diversi tipi di simbiosi. Questo studio potrebbe aiutare gli scienziati a capire come le relazioni simbiotiche strutturano le foreste (e gli ecosistemi) del mondo e come potrebbero essere influenzate dal riscaldamento globale.

Con un team di oltre 200 scienziati, coordinati dai ricercatori della Stanford University, abbiamo generato le mappe globali delle simbiosi forestali e proposto una nuova «legge biologica», chiamata la Legge di Read dal nome del pioniere nella ricerca sulla simbiosi, Sir David Read.
Per mostrare un esempio delle applicazioni di questa ricerca, abbiamo usato le mappe delle simbiosi forestali per prevedere come queste potrebbero cambiare entro il 2070 se le emissioni di carbonio continuassero ad aumentare. Questo scenario ha suggerito una riduzione del dieci per cento nella biomassa delle specie arboree associate a un tipo di funghi simbiotici presenti principalmente nelle regioni più fredde. Con questa ricerca abbiamo anche suggerito che una tale riduzione della biomassa potrebbe causare maggiori emissioni di carbonio nell’atmosfera perché questi funghi tendono ad aumentare la quantità di carbonio immagazzinata nel suolo che verrebbe rilasciata se queste relazioni simbiotiche si interrompessero.
Nascoste nel suolo alla maggior parte degli osservatori, queste collaborazioni inter-regno tra microorganismi e alberi sono molto diverse. In questo studio ci siamo concentrati sulla mappatura di tre dei più comuni tipi di simbiosi: fungine micorriziche arbuscolari, fungine ectomicorriziche e batteriche azotofissatrici. Ognuno di questi tipi comprende migliaia di specie di funghi o batteri che formano partnership uniche con diverse specie di alberi. Trent’anni fa, il dott. Read disegnò, a mano, mappe dove riteneva che diversi funghi simbiotici potessero risiedere, in base ai nutrienti che forniscono agli alberi. I funghi ectomicorrizici forniscono azoto agli alberi direttamente dalla materia organica, come le foglie in decomposizione. Così Read propose che questi simbionti sarebbero più efficaci nei luoghi più freddi dove la decomposizione è lenta e la lettiera è abbondante. Al contrario, il botanico inglese pensava che i funghi micorrizici arbuscolari sarebbero stati dominanti nei tropici, dove la crescita degli alberi è limitata dal fosforo. La ricerca di altri ricercatori ha aggiunto che i batteri azotofissatori sembrano crescere male a basse temperature.
Il nostro team ha identificato per la prima volta la posizione di 31 milioni di alberi sulla Terra e l’ha combinata ai dati sull’associazione di funghi e batteri simbiotici a ciascuna specie arborea con un algoritmo basato sull’intelligenza artificiale che ha usato come variabili il clima, la chimica del suolo, la vegetazione e la topografia. Da questo, abbiamo scoperto che i batteri che fissano l’azoto sono probabilmente limitati dalla temperatura e dal pH del suolo, mentre i due tipi di simbiosi fungine sono maggiormente influenzati dal tasso di decomposizione, ovvero la velocità con cui la materia organica si degrada nell’ambiente, e da temperatura e umidità.
Sebbene la ricerca abbia supportato l’ipotesi di Read, cioè una maggior presenza di funghi micorrizici arbuscolari nelle foreste più calde e funghi ectomicorrizici nelle foreste più fredde, le transizioni tra i biomi da un tipo simbiotico a un altro si sono rivelate molto più brusche del previsto. Questo ci ha fatto pensare che ci sia un’altra ragione alla base della distribuzione delle simbiosi forestali: i funghi ectomicorrizici modificano il loro ambiente locale per ridurre ulteriormente la velocità di decomposizione della biomassa.
Questo feedback, come molti cicli di retroazioni tra funghi, batteri e alberi, oltre a spiegare perché abbiamo osservato la riduzione del 10% nei funghi ectomicorrizici in uno scenario in cui le emissioni di carbonio continuano inalterate fino al 2070, rafforza l’importanza della «Teoria Unificata della Simbiogenesi» come base per comprendere l’evoluzione e la biodiversità delle specie sul nostro pianeta.
L’aumento delle temperature globali dovuto ai cambiamenti climatici potrebbero, ad esempio, forzare i funghi ectomicorrizici a modificare le proprie relazioni simbiotiche con gli alberi (proprio come accade nel caso dello sbiancamento dei coralli tra alghe e polipi), diminuendone la resilienza eco-fisiologica, oltre ad alterare la distribuzione e la diversità delle foreste mondiali.
Insomma, ancora una volta viene confermato ciò che sostengo da tempo supportato dalle idee pioneristiche di Lynn Margulis, James Lovelock e Stuart Kauffman: l’evoluzione si basa prevalentemente sulla cooperazione simbiogenetica (simbiosi fisica, ovvero endosimbiosi, e simbiosi genetica, ovvero endogenosimbiosi) tra specie, piuttosto che sulla competizione tra specie.
Piuttosto che lotta per l’esistenza, in Natura c’è cooperazione per la sopravvivenza. Vive più a lungo ed è più resiliente il gene altruista di quello egoista, con buona pace dei fautori dell’idea che competere sia sempre meglio che collaborare.
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D.,
Biologo ambientale ed evolutivo,
Professore di Biologia della Conservazione e Biodiversità,
Università di Bologna






Il corollario di queste scoperte è che non dobbiamo far gestire la complessità degli ecosistemi forestali ai forestali. Nel corso della vita di una quercia, oggi centenaria, hanno cambiato almeno quattro volte le regole di governo dei boschi. Il risultato che non abbiamo querce centenerie nei boschi italiani. La sedicente selvicoltura naturalistica è in conflitto con la resilienza degli ecosistemi forestali come ha efficacemento descritto Marie-Stella Duchiron nel recente “Sylviculture d’écosystème.La sylviculture sauvage” (cap. 5).
Paolo Debernardi