Lo sviluppo insostenibile e la sostenibilità della Natura

Si tenne a Rio de Janeiro nel 1992 la conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo. Proprio quest’anno si è celebrato il ventennale di quello storico incontro con il meeting denominato Rio+20, che ha visto confluire centinaia di delegati di tutti i Paesi verso la megalopoli brasiliana, senza segnalare alcun passo in avanti significativo rispetto alla prima assise. Probabilmente le emissioni prodotte dallo spostamento di massa di funzionari, giornalisti, attivisti, etc. ha generato più impatto sull’ambiente di quanto la conferenza stessa abbia tentato di ridurre.

Ad ogni modo, dall’Agenda 21 al Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg del 2002 l’idea di riconciliare progresso umano, crescita della popolazione e sostenibilità ambientale ha segnato l’agenda di ogni forum internazionale. La definizione di sviluppo sostenibile fu inserita per la prima volta nel rapporto Brundtland (premier norvegese), della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, nel 1987. Si legge nel testo che: «Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali »

E’ rilevante sottolinerare che il rapporto tende ad enfatizzare il concetto di crescita economica, l’importanza dei bisogni dell’individuo ed il riscatto dei Paesi poveri: «Lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni ad una vita migliore […] Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali».

Il controsenso proposto dall’associazione dei termini “sviluppo” e “sostenibilità” è già evidente nella formulazione dei concetti e delle linee guida del testo di Brundtland, ma si è reso ancor più manifesto nel corso dell’ultimo lustro di indiscriminata crescita dell’umanità, a discapito non solo delle generazioni future, come recita il rapporto, ma anche di quelle contemporanee.

Dagli anni ’80 ad oggi si è assistito ad uno spropositato incremento della popolazione umana, che pare debba toccare quota 9 miliardi entro il 2050 (a meno di catastrofi), e dei consumi pro-capite. A questi si è aggiunto il diritto, sacrosanto e sancito, di crescita con pari garanzie di soddisfazione dei bisogni del singolo da parte dei popoli definiti in Via di Sviluppo, che stanno mangiando la propria fetta di torta in un un pianeta ridotto quasi in briciole.

Il problema dello sviluppo sostenibile risiede nella sua contraddizione in termini. Non è possibile, infatti poter immaginare uno sviluppo di tipo economico che si concili con una sostenibilità di tipo ecologico. Solamente se si integrano economia ed ecologia, in quella che oramai sta diventando la nuova scienza olistica dell’economologia (vedi www.economologos.org), si può comprendere il paradosso insito nell’omologo principio di “crescita verde” o “green economy”.

Se guardiamo ai fenomeni naturali, che come ci ricorda Aldo Leopold dettano le linee guida del diritto universale, non troviamo mai uno sviluppo a tempo indeterminato ed infinito o una crescita indiscriminata e senza fine. Ogni processo, dall’embriogenesi alla crescita di popolazioni, dopo una fase iniziale di moltiplicazione, accumulo delle risorse e metabolismo, si stabilizza ad un livello di mantenimento dello stato vitale e riciclo dei materiali, sino a raggiungere l’ultima soglia di declino che segna il passaggio ad una nuova forma di equilibrio e quindi di esistenza. La morte dell’individuo, d’altronde, non è un punto fisso nello spazio delle fasi (come lo definirebbero i matematici), non è “come d’autunno sugli alberi le foglie” come la descrive meravigliosamente Giuseppe Ungaretti, ma è la ripresa di un costante ciclo dinamico d’equilibrio realizzato dalla Natura per preservare risorse e riciclare sostanze, per garantire la vita che si genera dalla stessa morte. Prima dell’avvento dell’Homo sapiens il processo di consumo indiscriminato del territorio in funzione dello sviluppo di un mondo artificiale e surrogato non aveva mai sfiorato la mente, per quanto semplice, neanche del più microscopico batterio. Per ogni essere vivente, uomo escluso, crescere e svilupparsi sono concetti limitati nel tempo da leggi di Natura, inviolabili. Pena l’esclusione dal mondo vivente.

Putroppo dopo decenni di conferenze, rapporti, documenti e dibattiti il timore di essere espulsi dalla ruota dell’esistenza, prima di devastarla completamente, non ha mutato le abitudini della stragrande maggioranza della popolazione modiale e così nel 2012, quello che un cinquantennio prima sembrava essere il livello massimo sostenibile, appare il punto di non ritorno.

Incredibilmente, proprio gli stessi moniti fuorisciti dai consessi internazionali e le contraddizioni di alcune definizioni come “sviluppo e crescita sostenibile” hanno generato un inopportuno senso di fiducia nel cittadino che comprando l’auto a metano, installando il riduttore di flusso ai rubinetti e piantando 2 alberi in giardino si è illuso di aver fatto la sua parte nell’imbroglio della “economia verde”. Al contrario dei sistemi naturali, infatti, l’economia ragiona attualmente con modelli lineari di produzione, consumo e smaltimento, che tende a proiettare all’infinito, ignorando volutamente (sotto le pressioni delle multinazionali, dei governi e delle banche) la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse naturali. La recente crisi economica europea ha spinto molti leader di vecchio stampo, tra cui l’economista Mario Monti, a non rompere con l’obsoleta ed assurda tradizione di chiedere ai cittadini del proprio Paese di aumentare i consumi per garantire la ripresa economica. Un simile atteggiamento, orbo e doloso, favorisce soluzioni di breve termine che illudono la popolazione di un riassesto degli equilibri sociali, ma sul lungo termine si rivela fallimentare perché depaupera ancor più gli ecosistemi e la biodiversità che forniscono le materie prime per la realizzazione dei beni di cui si nutre l’obeso consumatore occidentale.

Dalla nascita del capitalismo agli scritti di Adam Smith, tra cui La Ricchezza delle Nazioni e l’invenzione della “mano invisibile”, che spingerebbe il perseguimento di un interesse personale verso il raggiungimento di un bene comune, largamente contestata già da Karl Marx, giungiamo alle soglie del XX secolo con un movimento che intuisce la fallcia del principio di sostenibilità applicato alla crescita e con portavoci come Serge Latouche e Maurizio Pallante, che cercano di reindirizzare la rotta.

Il filosofo ed economista francese, promotore della decrescita felice, già alla fine degli anni ’90 aveva evidenziato le contraddizioni insite nell’insostenibilità dell’attuale modello economico. Recentemente ha dichiarato: “Rompere con la società della crescita non vuol dire sostenere un’altra crescita e neppure un’altra economia, significa uscire dalla crescita e dallo sviluppo, e dunque dall’economia, cioè dall’imperialismo dell’economia, per ritrovare il sociale e il politico. Certo, con migliori carburanti si brucia meno petrolio e con lampade a basso consumo si consuma meno energia, ma se si fanno girare i motori per più tempo e si accendono sempre più lampade, il problema non è risolto. Nel migliore dei casi allontaneremo il momento del crollo”. Ecco dunque emergere l’ipocrisia di una green economy basata più sul greenwashing (traducibile come “lavaggio ecologista del cervello”), rassicurazione per il cittadino convinto di essere “una brava persona”, che su reali rivoluzioni culturali e comportamentali.

Purtroppo, senza azioni concrete, rivoluzionarie e radicali i tempi di cambiamento dettati dalle conferenze mondiali, dai moniti dei fautori dell’“economia verde” e della crescita illimtata saranno troppo lenti e vedranno il collasso degli ecosistemi planetari prima ancora che si affacci un minimo di consapevolezza della problematica nella popolazione. E’ necessaria una vera rinascita culturale, senza più attese e senza più menzogne come quella divulgata dallo sviluppo sostenibile. E’ ora di smascherare l’imbroglio e gli imbroglioni. Perché per la prima volta nella storia della nostra specie ci ritroviamo a non avere più bisogni, ma ad avere sempre più mezzi per soddisfarne.

Mi è capitato di passeggiare tra le bancarelle di un mercato a Roma di recente e mentre la gente si affannava tra vestiti ed oggetti di ogni tipo, rigorosamente Made in China, mi chidevo se non fosse il caso di guardare cosa c’era in vendita sui quei banconi pieni di cianfrusaglie. Eppure non mi veniva in mente nulla di cui avessi realmente bisogno e niente che meritasse la mia attenzione. Nonostante questo, osservavo meticolosamente l’ossessività compulsiva dell’acquisto delle più svariate futilità da parte di chiunque osasse avvicinarsi agli aricoli esposti. A quel punto mi divenne chiara la realtà dei nostri tempi: almeno nel mondo occidentale, non c’è più qualcosa di cui davvero abbiamo bisogno; ci sono soltanto bisogni che ci vengono imposti dall’alto, sino a quando noi non li avvertiamo come parte della nostra esistenza. Il mercato non sta più rispondendo alle nostre richieste, sta creando bisogni. In una folle corsa verso il nulla qualunque tipo di bene viene immesso nel mercato globale prima ancora che vi sia qualunque domanda. Così attraverso la macchina pubblicitaria, che ci bombarda ovunque ci troviamo (dagli angoli più remoti delle città, ai giornali, alle TV, alle radio), ci viene insinuata la subdola necessità di possedere qualcosa che non abbiamo mai pensato potesse esserci utile e di cui spesso ignoravamo addirittura l’esistenza.

Quelle file chilometriche di gente assonnata, in piedi da ore dietro le vetrine della Apple, per l’acquisto dell’ultima versione dell’iPhone, non solo è triste ed umiliante, ma è l’emblema della società dei consumi che abbiamo creato e che lentamente ha preso il sopravvento persino sulle nostre menti, plagiandole a beneficio di un consumismo forsennato e disastroso.

Gli effetti di un capitalismo basato sull’acquisto compulsivo e sui rifiuti derivanti, sono ben evidenti da tempo e si faranno ancor più eclatanti in questi anni. Basti pensare alla tratta di uomini, alle violenze sulle donne, allo sfruttamento dei bambini, all’inquinamento dei fiumi ed alla deforestazione che causa un solo milligrammo di terra rara utilizzata per produrre una tecnologia che oltre a non servirci realmente, ci sta rendendo schiavi di un mondo finto in cui il contatto con la Natura è inesistente e le relazioni sociali sono distorte dai social network. Discorso simile vale per le migliaia di prodotti usa e getta, imballaggi, abbigliamento di scarsa qualità fabbricato in Oriente, auto e moto, cibo da fast-food, etc.

Latouche sintetizza bene questa follia globale in un passaggio del suo libro dal titolo “Breve Trattato sulla Decrescita Serena”, in cui scrive: “Oggi la crescita è un affare redditizio solo a patto di farne sopportare il peso e il prezzo alla natura, alle generazioni future, alla salute dei consumatori, alle condizioni di lavoro degli operai e, soprattutto, ai Paesi del sud. Dunque, una rottura è indispensabile”. Questo strappo non potrà avvenire sino a quando non supereremo qualunque concetto di crescita e di sviluppo, qualunque illusione di greeneconomy ancora professata presino nelle università, e realizzeremo un “nuovo paradigma” d’esistenza, prendendo in prestito il concetto sviluppato dal filosofo Thomas Khun per le rivoluzioni scientifiche.

Furono proprio alcuni tra i filosofi, come Bacone, Cartesio e Locke, attualmente considerati fondatori del pensiero occidentale ad infondere il mito della crescita a beneficio dell’individuo. Locke su tutti era assurdamente convinto che: “chi si appropria col suo lavoro della terra non assottiglia ma accresce le provvigioni comuni dell’umanità: infatti i beni atti al sostentamento della vita umana che sono prodotti da un acro di terra cintata e coltivata sono, a dir poco, dieci volte quelli forniti da un acro di terra altrettanto ricca ma lasciata incolta e comune. Perciò si può veramente dire che colui che recinta un terreno, e da dieci acri trae maggior quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarre da cento lasciati allo stato naturale, dona novanta acri all’umanità”. Perdono, in questo modo, del tutto rilvanza il benessere della vita e della Biosfera. L’esistenza stessa della Natura.

Il problema dello sviluppo insostenibile, come quello che abbiamo attuato sino ad oggi, deriva anche dal considerare il lavoro come prioritario su ogni altro aspetto dell’esistenza. Come spiega giustamente Guido della Casa nel suo libro L’Ecologia Profonda: “Di solito nel nostro mondo si è formata l’idea che il lavoro sia sempre qualcosa di positivo, da premiare indipendentemente da ogni altra considerazione. Così si pensa che chi lavora di più debba automaticamente guadagnare di più,

che in sostanza sia più bravo di chi lavora di meno: il lavoro ha acquistato un valore etico in sé, anche se si tratta di lavoro che danneggia l’intero Organismo terrestre o contribuisce a qualche patologia della Biosfera. Solo recentemente si è cominciato a considerare negativa almeno la produzione di sostanze inquinanti, limitando però l’esame ad ogni singolo processo locale, come se fosse possibile isolarlo. Non si è mai tenuto come valore etico il mantenimento in condizioni vitali

della Biosfera terrestre, oppure degli ecosistemi di cui il processo fa parte. Non si è neppure considerato il danno, se non in tempi recentissimi e limitatamente a specie rare, arrecato ad altre specie viventi o a processi naturali. In sostanza, è mancata la percezione della non separabilità di ogni processo lavorativo umano dall’ecosistema globale.

È invece indispensabile avere sempre presente questa percezione, tenere come primo valore l’etica della Terra”.

Non potrà mai avvenire un radicale cambiamento di direzione verso una reale sostenibilità che non preveda la crescita se non si ridurranno sino all’osso i consumi individuali e non si proporrà un modello che incentivi il riutilizzo, l’acquisto dell’ustato, il baratto ed il libero scambio. Ovviamente i governi, compreso quello tecnocratico italiano, si guarda bene dal promuovere simili comportamente, perché come affermava Edward Goldsmith: “Lo sviluppo economico, nonostante i suoi devastanti effetti sulle società e l’ambiente, resta il principale obiettivo delle agenzie internazionali, dei governi nazionali e delle corporazioni transnazionali che sono naturalmente i suoi principali sostenitori e beneficiari. Ciò viene giustificato col fatto che solo lo sviluppo, e ovviamente il libero commercio globale che alimenta, può sradicare la povertà. Oggi quasi nessuno di coloro che occupano posizioni di comando sembra disposto a mettere in discussione questa tesi, sebbene non sia sostenuta da prove teoriche né empiriche, né serie”.

Non è possibile, quindi, continuare ad invocare uno sviluppo seppur sostenibile ed una crescita economica infinita in un pianeta limitato e finito. La Terra non potrà sostenere a lungo quest’ipocrisia. Gli unici elementi che è possibile far “crescere” senza degradare la Biosfera ed anzi arricchendola sono valori non materiali, come il senso estetico, l’arte, la cultura, l’intelligenza ecologica, l’armonia con la Natura, la spiritualità ed il pensiro, il valore degli affetti e della comunità in cui si vive, la cooperazione e l’altruismo.

Per ottenere un’inversione di tendenza è, però, indispensabile agire contemporaneamente sulle due componenti fondamentali: il materialismo e la sovrapopolazione. Senza un passaggio ad economie di libero scambio locale, con produzione, acquisto, consumo e riciclo dei prodotti su piccola scala, con radicale riduzione del mercato del “nuovo” e privilegio per la qualità piuttosto che per la quantità, associato ad una drastica riduzione della popolazione umana (che da sola attualmente consuma più del 60% della produzione annuale primaria), con politiche di educazione, contraccezione ed emancipazione femminile, non si potrà avere alcuna sostenibilità. Ed allora l’umanità sarà destinata ad un agognante declino verso l’insostenibile idea di potersi sviluppare a scapito della Natura, che con sapienza, per miliardi di anni è esistita garantendo l’esistenza a migliaia di specie tutte, tranne una, in grado di comprendere davvero come vivere in maniera sostenibile.

Roberto Cazzolla Gatti

Biologo ambientale ed evolutivo

 Pubblicato su Villaggio Globale di Dicembre 2012 http://rivista.vglobale.it/temi/791-i-contrasti/crescita-o-sviluppo/piazzagrande/15204-lo-sviluppo-insostenibile-e-la-sostenibilit%C3%A0-della-natura.html