Cara Caterina, anche le cavie sono vive sino a quando non vengono uccise

Cara Caterina Simonsen,
anche se non ci conosciamo personalmente, ho seguito, come molti italiani in questi giorni, con attenzione la sua vicenda dopo che ha pubblicato la sua foto-manifesto sul sito «A favore della sperimentazione animale».
Mi auguro che possa leggere le mie parole con serenità, poiché immagino che il dibattito che si è aperto dopo il suo post, spesso affrontato con toni insostenibili, non le garantisca quella quiete che necessita durante la sua terapia e la degenza in ospedale.
Le scrivo perché mi ha molto colpito la sua scelta di mostrare quel cartello con su scritto «Io Caterina S. ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale». Comprendo bene cosa possa muovere una persona che rischia la vita a lottare con tutte le sue forze per quell’istinto che porta ognuno, nel momento di maggior difficoltà, a non rassegnarsi. Il suo coraggio, la sua voglia di vivere sono ammirevoli.
Da studentessa di veterinaria, però, non posso capire, invece, come possa distinguere una «vera ricerca» da una falsa. Dovrebbe essere ben consapevole che la ricerca è ricerca. Semplicemente. Non ce n’è di vera o di falsa. In qualche modo il suo aggettivo anticipa quanto scritto subito dopo: la ricerca sugli animali. Forse è questo che distingue la falsa dalla vera ricerca? Si sbaglia. E glielo dico con tutt’altro tono rispetto alle offese che le sono state rivolte in questi giorni.
Si sbaglia per due ragioni fondamentali. La prima è che la ricerca sugli animali viene da tempo associata a una ricerca più sicura, più affidabile, più comprensibile, pur basandosi su principi completamente infondati. Cosa che la scienza «vera» non può accettare.
Il modello animale, proprio perché differenziato a seconda della specie d’interesse, non può essere esteso al regno, tanto meno applicato all’animale uomo, a meno che la cavia non sia stata umana. Indurre sindromi, morbi, tumori in ratti, scimmie, maiali, etc. non può dare che un’indicazione di massima sui meccanismi fisiologici e biochimici delle patologie, che sono specie-specifici. Forse nei corsi di veterinaria non lo ricordano, ma devo riportarle alla mente il caso «talidomide», che dopo aver superato la fase sperimentale sulle cavie animali non-umane e nonostante fosse stato ritenuto sicuro per l’animale uomo, ha causato nei nascituri amelia e focomelia.
Lei dice nella sua intervista al quotidiano «la Repubblica» che si sta schierando con i sui articoli superficiali e iniqui: «Penso che siano persone ignoranti. Non intendo ignoranti nel senso di imbecilli, no. Ignoranti nel senso che ignorano la realtà, le leggi e anche quello che prendono. […] Mancano di buon senso, non sanno accettare vie di uscita, ma allora almeno si impegnino a fare un altro genere di ricerca, ma vera. Sì, c’è molta ignoranza, al liceo biologia si studia solo un anno, bisognerebbe studiarla per cinque anni. Bisogna combattere l’ignoranza».
Le assicuro che biologia l’ho studiata al liceo e in questo ambito ho preso anche una laurea triennale e una specialistica, ma per quanto ignorare qualcosa sia parte stessa dell’uomo, sebbene non mi senta ignorante in materia, non ritengo, comunque, accettabile la sua tesi.
La seconda ragione è proprio questa: non è solo un problema d’ignoranza. Concordo che, se ci fosse più consapevolezza scientifica in Italia in pochi si farebbero abbindolare da un imprenditore che spaccia un metodo mai testato, mai reso pubblico, senza risultati come panacea per le distrofie muscolari, intascando soldi e ridicolizzando la ricerca italiana nel mondo.
D’altra parte, se la popolazione conoscesse meglio cosa significhi, da un punto di vista bio-medico, la sperimentazione animale sono certo che la maggioranza la riterrebbe un’assurdità. E non si tratterebbe di sensibilità animalista. Solo di minor ignoranza, come dice lei.
Se davvero nei licei, sui giornali, in TV si facesse luce sull’uso improprio della sperimentazione animale in medicina l’opinione pubblica avrebbe certamente le idee più chiare.
Se tutti sapessero il modo in cui vengono testati alcuni farmaci antitumorali, inducendo la formazione di metastasi in animali (spesso ratti appena partoriti) perfettamente sani, incentivandone e velocizzandone lo sviluppo e iniettando i principi attivi in sperimentazione sino a quando l’animale non muore o, forse, vive ancora col tumore in corpo, in pochi confermerebbero l’utilità per l’uomo.
Se tutti sapessero come si studiano le sindromi rare, modificando il DNA di un animale sano, con l’inserzione di porzioni nucleotidiche mutate derivanti da ingegneria genetica, attendendo una risposta nell’organismo della cavia e verificando se determinate sostanze o specifiche sequenze codificano o meno per la manifestazione dei sintomi, sino all’abbattimento (poiché anche il termine sacrificio è impropriamente utilizzato), non molti appoggerebbero la ricerca sugli animali.
Se poi a questo si aggiunge il fatto che non è possibile definire la validità o l’efficacia di un farmaco o di una terapia genica direttamente dopo la fase di sperimentazione sugli animali non-umani, ma è obbligatorio un trial clinico sull’uomo, appare chiaro che il gioco non vale la candela. O meglio che il «sacrificio» non vale le sofferenze.
Come tutti potranno constatare pur non possedendo una formazione biologica, come lei auspica, o senza seguire un corso in veterinaria, come lei, è che per quanto simili le specie e i loro patrimoni genetici, le vie metaboliche e i processi fisiologici sono estremamente differenti e questo è il motivo principale per cui sia la Comunità europea, sia i nuovi protocolli sperimentali spingono affinché si sostituisca la sperimentazione animale con i test in vitro sulle colture cellulari o con le terapie mediche personalizzate.
Se si continua a sperimentare sugli animali è semplicemente perché costa meno e a pochi importa!
Questo è certamente uno dei motivi per cui la ricerca sul cancro, ad esempio, continua a portare scarsi benefici ai malati, tant’è che dopo oltre 50 anni di sperimentazione sugli animali, i tre principali metodi medici per la lotta al tumore sono: l’asportazione chirurgica, la chemioterapia e il miglioramento degli stili di vita. Dov’è, in tutto questo, il contributo della sperimentazione animale?
Dice di avere 25 anni ed essere in vita grazie alle ricerche sugli animali, ma è veramente consapevole di cosa questo voglia dire? Sa che solo per eseguire un banale test farmacologico di tossicità vengono uccisi dai 50 ai 100 animali sani, appena partoriti? Sa che per testare una terapia genica, topi, ratti, scimmie e molte altre specie vengono fatte nascere in laboratorio, strappati a qualunque cura materna, fatti ammalare e uccisi subito dopo? Mettiamo che sia davvero la sperimentazione animale a tenerla in vita, sa che questo implica che migliaia di altre vite siano state sterminate per permetterle di arrivare a 25 anni? Almeno non ne farei un mantra.
Le assicuro che il mio corso di biologia all’università prevedeva molte esercitazioni di laboratorio con reni e fegati di ratto, con cute di rana, etc. (per i quali ho scelto l’obiezione di coscienza ritenendoli inutili). La colpa non è dell’ignoranza in biologia, la colpa è del modello di mondo in cui viviamo.
Ha ragione, così come hanno ragione coloro che difendono la sua crociata, quando dite che senza la sperimentazione animale ci potrebbe essere ugualmente ricerca, ma sarebbe molto più lenta.
È consapevole, però, che i maggiori progressi scientifici mondiali sono avvenuti nei campi di concentramento, sulle cavie ebree e nei gulag voluti da Stalin? I progressi di cui noi oggi beneficiamo sono stati ottenuti a discapito di molte vite, umane e non, sacrificate per il progresso della scienza. I musei dei campi di concentramento di Dachau, Auschwitz e Solovki solo per citarne alcuni, sono pieni di arnesi, lettini e immagini di quel grande e vergognoso progresso medico umano.
Quanti sarebbero d’accordo a far nascere, in maniera programmata, feti umani per destinarli alla sperimentazione? Si tratterebbe certamente del metodo più affidabile e specie-specifico a disposizione. Chi lo farebbe con suo figlio? Qualcuno sarebbe d’accordo se si continuasse a sperimentare sugli ebrei? Forse qualcuno ancora sì. Ma per fortuna verrebbe presto arrestato. E su una scimmia? Su un topo? Che differenza fa? Non è sempre vita?
In effetti la differenza c’è e non va certo a favore della sua crociata, ancora una volta: non torturiamo e uccidiamo più (forse) gli esseri umani per curare patologie che colpiscono gli esseri umani; facciamo ammalare, testiamo farmaci e cure, ammazziamo animali non-umani per curare patologie degli uomini. Ci siamo evoluti in questo. Le sembra sensato? Dal punto di vista dell’uomo che si crede Dio certamente sì, ma come ci giudicheranno le future generazioni?
Se esistesse un’altra specie, mettiamo di topi superevoluti, che trattenesse donne in stabulari pieni di gabbie e naftalina, che facesse loro partorire un figlio dopo l’altro per destinarli ad atroci esperimenti, indurre loro patologie e poi destinarli alla morte, l’uomo dall’alto della sua arroganza e con indignazione estinguerebbe questa crudele specie, che per curare le sue malattie sacrifica i nostri bambini.
Il problema, cara Caterina, non è dunque solo culturale, medico-scientifico o di sensibilità. Si tratta di un problema morale ben più complesso di quanto riportato nel suo semplicistico slogan.
Sinora, però, ho dato per scontato che quanto da lei scritto, cioè che grazie alla vivisezione a 25 anni è ancora in vita, ma mi saprebbe dire se ne è davvero consapevole, al di là dei cartelli (e questo edificherebbe tutti e la scienza intera) in quale modo la sperimentazione animale ha contribuito alla sua sopravvivenza? Cosa, in particolare di quanto testato sugli animali, le garantisce anni di vita? Non sarà forse che dietro quella sua foto vi è l’interesse di ombre oscure dell’industria farmaceutica o biomedica o di progetti come Telethon che da sempre ignorano le perplessità della validità del modello sperimentale animale (e sperperano denaro pubblico), per riportare alla ribalta un discorso che da tempo, anche le più titolate riviste scientifiche come «Nature» e «Science», affrontano con cautela e senza slogan demagogici del tipo «grazie alla ricerca vera»?
C’è un aspetto sul quale però concordo appieno con lei: le persone che l’hanno insultata sono degli imbecilli. La vita ha valore universale e augurare la morte, non è bello. Per nessuno. Si tratti di animali umani e non. È proprio su questo che le chiedo di riflettere. La sua vita è preziosissima e le auguro possa guarire e star bene al più presto. Le auguro tutto il bene che si possa immaginare per una vita. Ma non crede che anche la madre di quei topi, di quei ratti o di quelle scimmie appena date alla luce vorrebbe quello stesso bene che gli insulti di meschini (non definibili animalisti, poiché se ami gli animali includi anche l’uomo!) le hanno tolto? Non hanno forse, anche gli animali non-umani, diritto a quella stessa vita che lei lotta per salvare?
Le ho già tolto molto, preziosissimo tempo. Ora la lascio riposare, poiché credo di averle scritto più domande che risposte. Sa, non è facile quando si tratta della tua vita. Quando sei tu che devi vivere o morire.
Però la saluto con un ultimo interrogativo: avrebbe sacrificato il suo cane per provare a trovare una cura alla sua malattia genetica, senza peraltro avere alcuna certezza di validità, utilità e successo?
Se mi risponde di sì, ma leggo che è vegetariana e quindi non credo lo farà, ma se per ipotesi la sua risposta fosse sì e, sempre per ipotesi, le dicessero che è incinta, sarebbe disposta a «donare» suo figlio alla scienza per permettere che il suo corpo, con un DNA molto simile al suo e potenzialmente portatore delle sue stesse patologie, venga utilizzato per la sperimentazione?
È vero, chi la insulta è un «nazi-animalista». Anzi, è solo un «nazi», di quelli che sacrificavano la vita di essere ritenuti inferiori per garantire una vita migliore a quelli creduti superiori.
Esattamente come fa chi sperimenta sugli animali.
Che sia un buon anno nuovo anche per lei e l’inizio di una nuova vita, ma anche di una nuova coscienza.
La saluto con i migliori auguri di buona guarigione.

Roberto Cazzolla Gatti, Biologo ambientale ed evolutivo

Un pensiero su “Cara Caterina, anche le cavie sono vive sino a quando non vengono uccise

I commenti sono chiusi.